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Fiabe, leggende e miti

Ca' Dario, Venezia

Sul Canal Grande, a Venezia, nel sestiere di Dorsoduro, all'imbocco del Rio delle Torreselle, si affaccia un maestoso ed elegante palazzo in tipico stile veneziano: Ca' Dario. Su di esso graverebbe da secoli una maledizione: coloro che acquistano la Casa vengono brutalmente uccisi o muoiono suicidi o per per "strane" cause accidentali. Voluta dal segretario del Senato della Repubblica di Venezia Giovanni Dario, che la commissionò all'architetto Pietro Lombardo nel 1479, Ca' Dario si è costruita questa pessima fama nel corso degli anni fin dopo le prime, misteriosissime morti. Le opinioni sono contrastanti sulle cause della morte dei vari proprietari: una conferma del fatto che non si sa realmente in quali precise circostanze alcune di esse siano avvenute. Dopo la morte di Giovanni Dario la Casa passò nel 1494 alla figlia Marietta che aveva anni prima sposato il ricco Giacomo Barbaro: l'uomo d'affari subì un tracollo finanziario subito dopo e morì accoltellato. La donna, in seguito a questa crisi, morì suicidandosi. Vincenzo Barbaro, il figlio di Giacomo, venne invece trovato morto a Candia (Creta). Fu un agguato, e gli assassini non furono mai scoperti. È nell'Ottocento, però, che Ca' Dario costruisce per bene la sua pessima fama di casa maledetta. La famiglia Barbaro rimase in possesso del Palazzo Dario fino agli inizi del XIX secolo, quando Alessandro Barbaro (1764-1839), membro dell'ultimo Consiglio dei Dieci della Repubblica di Venezia e Consigliere Aulico del Tribunale Supremo di Verona, vendette il palazzo a Arbit Abdoll, un commerciante armeno di pietre preziose. L'uomo non ebbe molto tempo per godersi la nuova abitazione, poiché presto la sua attività fallì miseramente e morì subito dopo. Radon Brown, studioso inglese che acquistò l’edificio, fu uno degli sfortunati che morì misteriosamente insieme al suo compagno. Si pensò al suicidio. L'americano Charles Briggs, fuggito in Italia con il suo amante perché negli Stati Uniti l'omosessualità era fuorilegge, non ebbe vita lunga una volta giunto a Venezia e acquistata Ca' Dario: si suicidò con il proprio amante. La maledizione di Ca' Dario, il palazzo a Venezia che uccide Una bella immagine di Ca' Dario e dei palazzi circostanti | photo credit: Alberto Bizzini Tra il 1899 e il 1901 il poeta francese Henry De Regnier visse da ospite all'interno del Palazzo, fino al sopraggiungere di grave malattiva che pose termine ai suoi soggiorni veneziani. Agli inizi degli anni Settanta l'edificio venne acquistato da Filippo Giordano delle Lanze. Anche lui subì una tragica fine, ucciso dall’amante, un diciottenne che gli spaccò una statuetta sulla testa. Il ragazzo fuggì a Londra ma morì a sua volta per mano di sconosciuti. Christopher "Kit" Lambert, manager del gruppo rock The Who, acquistò Ca' Dario e morì cadendo dalle scale. Si ipotizzò, anche in questo caso, il suicidio. Fabrizio Ferrari, un manager veneziano, acquistò e si trasferì a Ca' Dario agli inizi degli anni '80. Ben presto ebbeun tracollo economic, mentre sua sorella Nicoletta morì in un incidente d'auto senza testimoni, a pochi metri dalla propria auto capovolta. Poco più di vent'anni fa Raul Gardini acquistò il palazzo per farne dono alla figlia. Fu poco dopo coinvolto in numerosi scandali finanziari e subì pesanti perdite. Morì anch'egli suicida, sparandosi, in circostanze poco chiare: fu trovato morto nella sua casa di Milano, il 23 luglio 1993. Ma Ca' Dario colpisce anche a distanza. L'illustre tenore Mario Del Monaco si schiantò con l’auto mentre stava andando a stilare l’atto per l'acquisto della casa. Sopravvisse allo schianto ma dovette abbandonare per sempre il palco: la sua carriera era morta. Si racconta che in ambulanza, con voce strozzata, abbia detto al segretario che era con lui: "Sbrega quele carte" (distruggi il contratto). La maledizione di Ca' Dario, l'antica casa veneziana che uccide Agli inizi del 2000 anche il regista Woody Allen era interessato all’acquisto della Casa che Uccide, ma lasciò perdere (per sua fortuna!). Attualmente il palazzo veneziano è di proprietà di una multinazionale americana. Chissà se resisterà molto, nella crisi finanziaria di oggi. Varie sono state le ipotesi lanciate su questa casa maledetta. Alcuni sostengono che il palazzo fu costruito su un cimitero dei templari. Altri avanzano l'ipotesi che Ca' Dario sia influenzata dal talismano volto ad allontanare la negatività posto sul portone acqueo del palazzo di fianco. Si sono dette molte altre cose, per esempio che Ca' Dario sia tuttora abitata dai fantasmi dei precedenti proprietari. I Veneziani ci credono, eccome. Molti si tengono alla larga dal palazzo. A prescindere da tutte le ipotesi, coloro i quali raccontano di esserci stati avvertono uno strano senso di inquietudine entrandoci o anche guardandolo da fuori.

La leggenda della chioccia d'oro

Molto tempo fa la Rocca di Monfalcone era circondata da una folta selva, un intricato labirinto di vegetazione che gli abitanti dei paesi vicini chiamavano “bosco del diavolo”. A comando del forte vi era un uomo senza scrupoli che con l’ausilio dei sui armigeri depredeva e terrorizzava gli abitati vicini. In poco tempo divenne tanto ricco quanto sospettoso. Ossesionato dalla paura di perdere il suo tesoro decise di fare un patto con il diavolo: avrebbe ceduto la sua anima in cambio della protezione degli averi depredati. E così fu, il diavolo trasformò i suoi soldati in terrificanti lupi che da quel giorno si prestarono alla guardia del tesoro. Non contento, il castellano fuse tutto l’oro rubato, modellando con stampi di argilla un falco ed una chioccia con tredici pulcini, con lo scopo di nascondere al meglio il metallo prezioso. Nel frattempo le scorrerie continuarono ad opera degli stessi lupi. La gente ormai stremata dai continui sopprusi decise di armarsi ed assaltare il castello. Così, un gruppo di giovani armati si mise in cammino verso la Rocca. A guidare il piccolo esercito vi era Michele, un giovane del posto che si faceva strada nell’intricata boscaglia portando con se una croce. Forse per la giornata di pioggia, i lupi non riuscirono a fiutare il nemico che in poco tempo raggiunse, superandolo, il fossato della Rocca. Con stupore i giovani armati riuscirono ad entrare facilmente nella fortezza raggiungendo la cima della torre dove elevarono la croce. Nel frattempo il castellano aveva tentato la fuga. Nascose parte del tesoro in una galleria segreta ponendo a guardia dell’ingresso tutti i suoi lupi, quindi tentò di scappare attraverso una seconda galleria, ma raggiunto dal diavolo venne trascinato via. I giovani armati iniziarono così la ricerca del tesoro recuperando però il solo falco d’oro. Molti anni dopo, nella rocca, fu edificata una cappella dedicata al Santissimo Crocifisso quale ringraziamento al Signore. La chioccia d’oro con i tredici pulcini insieme a numerosi gioielli non venne mai ritrovata. Narra la leggenda che nelle notti di bufera è ancora possibile sentire l’ululato dei lupi che difendono il tesoro maledetto.

La leggenda del Castello degli Herbst

Durante un ricevimento indetto per la ristrutturazione del Castello, sotto i fumi dell’alcool e l’eccitazione della  festa, il signore Cristoforo di Herbst fece rinchiudere nella torre un mendicante vagabondo che aveva chiesto asilo. Qualche mese dopo, in occasione di altri festeggiamento con Massimiliano I d’Asburgo ed i suoi cavalieri, Cristoforo si ricordò di aver fatto rinchiudere lo sconosciuto e di averlo dimenticato nella torre. Subito avvisò della sventura la moglie Regine Ginneberin, che si sentì rabbrividire. Ella raccontò che durante l’assenza del marito dal castello aveva sentito gemiti sommessi e un lontano battere ad una porta, che l’avevano spaventata, poiché nessuno era stato in grado di spiegarle quei rumori misteriosi.  Il prigioniero aveva chiamato disperatamente aiuto, ma ormai era morto miseramente di fame. Cristoforo e la moglie non ebbero più pace al pensiero di quella morte orrenda avvenuta nel loro castello e decisero di fare un pellegrinaggio di penitenza fino a Roma, dove fecero voto di portare intorno al collo una catena di ferro come segno di pentimento. Così fecero infatti, dopo essersi inginocchiati nella chiesa di San Pietro in Vincoli, davanti alle catene dell'apostolo. Essi mantennero sicuramente il voto fino alla morte, infatti, sulla loro tomba si vedono ancora oggi, nella chiesa parrocchiale di Dobbiaco, le figure dei nobili Cristoforo e Regina in atteggiamento di preghiera e con le catene di ferro intorno al collo.

Sbilfs

Gli Sbilfs sono protagonisti di molte leggende della Carnia. Si narra siano folletti dei boschi. Completamente mimetizzati vivono nel sottobosco ma in taluni casi anche vicino all’uomo, in stalle e fienili. Il loro rifugio prediletto rimane però la cavità di un albero. Sono intelligenti, inafferrabili e spesso anche burloni, ma nello stesso tempo pronti ad aiutare chi nei boschi si trova in difficoltà. Proprio a causa della loro abilità nel mimetizzarsi con la natura circostante sono molto difficili da incontrare, cosa che comunque sembra essere più facile ai bambini e ai buoni di cuore. Gli Sbilfs sono caratterialmente assai differenti l’uno con l’altro, tanto che in alcune zone della Carnia vengono chiamati ognuno con un nome differente proprio a seconda dell’umore di ciascuno. Gli Sbilf non sono solo protagonisti di racconti fantastici ma sono anche la rappresentazione del rispetto che avevano i nostri antenati nei confronti della natura. Un profondo rispetto che suggeriva di non tagliare mai un albero senza motivo. Un modo, un pò antico, per fare “ecologia”. Nella zona Paularo gli Sbilfs sono chiamati anche Guriùz, questi sono particolarmente burloni e golosi tanto che la loro principale attività è quella di sottrarre dalle cucine, dolci e squisitezze. Una leggenda parla però della loro estinzione. I Guriuz avrebbero costruito un castello per metà interrato nel quale nascondevano un enorme tesoro. Assaltati da un esercito straniero furono tutti uccisi. Il nascondiglio non fu mai rilevato ed il tesoro mai trovato…

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