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Lavori e mestieri di altri Tempi

La tessitura

Tra i vecchi mestieri esercitati a Tiezzo, senz'altro era privilegiata la tessitura, perché nelle sue varie forme a Tiezzo ha una storia due volte millenaria. Anche se il nome '' Tiezzo'' sembra non derivare dal ''tessere'', come desidererebbe una gradevole ipotesi, ma piuttosto da ''thieda'', nome di origine gallica che significa ''ricovero per animali'', è un dato di fatto che la tessitura in forma familiare è stata esercitata da sempre. Duemila anni fa, a Tiezzo (o comunque si chiamasse il paese) veniva esercitata l'arte- noi oggi diremo il mestiere- della tessitura. Se ne ha ampia conferma dei reperti di epoca romana rinvenuti nel territorio di Tiezzo, databili 1° secolo a.C. Al 1° secolo d.C. Si può lecitamente supporre che questo sia stato il periodo di massima intensità della popolazione, prima che l'abitato venisse distrutto nel 167 d. C dai Quadi e Marcomanni, barbari invasori che provenivano dall'Europa del Nord. Databili dal 1°secolo d. C a Tiezzo si sono trovati numerosi pesi e contrapesi in cotto di telaio per filare la lana, formati a tronco piramidale con foro per appendere. Sono rigati sulle facce o punzonati quando erano ancor freschi di fabbricazione. Ci sono inoltre pesi circolari e ''fusaiole'' (elementi in cotto per telai), rinvenuti in grande abbondanza; tutti reperti testimonianti che gli abitanti, sia locali come quelli provenienti dalle famiglie dei veterani romani e stanziati nell'agro romano di Julia Concordia dopo la battaglia di Filippi (42 a. C) esercitavano l'arte della tessitura. I vari reperti di epoca romana, connessi per apparecchiature per tessere, sono così numerosi e continuamente se ne rinvengono nei campi appena arati anche al presente, per cui è lecito supporre che al tempo dei romani la tessitura fosse il mestiere principale a cui era dedita la popolazione. I reperti di epoca successiva, pure numerosi, possono provenire dalla pavimentazione delle case dei proprietari più abbienti , mentre il resto della popolazione viveva in case più modeste. Con le invasioni prima, poi con la grande inondazione del 589 d. C spari il paese che qui sorgeva, come furono cancellati gli altri paesi;dove sorgevano una fiorente campagna e belle coltivazioni, si estese quell'ampia selva che è ricordata nell'atto di donazione dell'imperatore Ottone III alla sede Vescovile di Concordia (anno 996). Passeranno secoli prima che la zona venga disboscata e riabilitata da povera gente alle dipendenze del Patriarca di Aquileia, del Vescovo di Concordia, dell'Abbazia di Santa Maria in Sylvis (Sesto al Reghena) e dei Conti di Prata. Verso il 1300 si comincia a trovare il nome Tiezzo, citato in vari documenti. Dunque a Tiezzo vi era una tessitura organizzata e fiorente. Infatti si parla di ''maestro''. Sarà ancora un ''maestro''' tessitore di Tiezzo che commissionerà la famosa pala della Misericordia per il duomo di San Marco di Pordenone al pittore Giò Antonio De Sacchis detto il '' Pordenone'', e in precedenza aveva ''dotato'' un altare; un altro fratello già nel 1484 aveva istituito un beneficio giuspatronale. Lo studioso di storia locale, il prof. Diogene Penzi, afferma che a Tiezzo la tessitura era molto sviluppata. '' L'arte della tessitura , una delle più antiche che si conosceva, ha avuto anche nella nostra zona i suoi cultori. Abbiamo notizia di telai rudimentali che funzionavano in varie località ad opera di singoli artigiani. Ma il nucleo abitato che più si distingueva per il numero di tessitori e per una certa tradizione locale era Tiezzo, nel territorio Azzano Decimo. I gruppi familiari dei tessitori, anche se non raggiungevano grosse entità, erano pur sempre di interesse ragguardevole nell'ambito della frazione. Non credo però che ciò possa giustificare il nome di Tiezzo derivante da tessere come mi è capitato di leggere recentemente; forse possiamo accettare tale definizione dal punto di vista affettivo per ricordare il perdurare della tessitura in detta località. E' già stato ricordato un nome diventato illustre per la sua donazione, che esercitava la tessitura a Tiezzo: è Francesco Tetio, appartenente a una famiglia di tessitori di origine carnica. Ha commissionato al pittore il Pordenone la pala della Madonna della misericordia per il Duomo di San Marco di Pordenone, per il prezzo di 47 ducati. Penso che il maestro Francesco Tetio, più che a Tiezzo, avesse la sua abitazione a Pordenone, dal momento che le abbondanti donazioni furono colà elargite. Certo, a Tiezzo deve aver avuto la materia prima per la tessitura e anche il luogo per la lavorazione. La pala commissionata all'artista l'8 maggio 1515, che ritrae la Madonna con il committente e i familiari sotto l'ampio mantello della Vergine, presenta pure nel paesaggio retrostante un gregge accudito da un pastore intento ad ascoltare un compagno che suona, che potrebbe essere una allusione all'attività di tessitore di Francesco Tetio   Continuando la ricerca sull'attività della tessitura a Tiezzo, si giunge ai secoli XIX e XX ; e qui le notizie sono state raccolte dalla viva testimonianza degli anziani, autentiche biblioteche viventi. Nel secolo scorso la tessitura con i telai familiari veniva esercitata da diverse famiglie. La testimonianza orale ci tramanda il nome di alcune case dove era più praticata questa attività. Così sono emersi alcuni nomi Case Bortolus, Gasparet, Roncadin. I Gasparet erano i più poveretti: tessevano la lana, la canapa, la seta. Altri invece solo la canapa. Ora cerchiamo di darne una descrizione, in modo da fornire un'idea a chi né è completamente sprovveduto e anche per ricordare una attività, esercitata il più delle volte in quasi tutte le famiglie, se pure in misura limitata. Presentiamo il telaio. Il telaio (telarò) è una macchina munita di congegni adatti all'intreccio della trama dell'ordito, manovrati dal tessitore a mano con pedali indipendenti l'uno dall'altro. Riguardo ai telai che lavorano a Tiezzo, ecco come li descrive il prof. Diogene Penzi ''Ci è stata offerta la possibilità di esaminare i pezzi di un vecchio telaio, esistenti ancora in casa Gasparet di Tiezzo. Naturalmente, mancando l'impalcatura, non si è potuto avere una visione d'insieme, ma l'esame ha portato a paragonare i telai di un tempo con quelli attuali. Essi infatti, erano più massicci e pesanti e di conseguenza meno facili da usare. I licci (staffe rettangolari che sostengono l'ordito) avevano dei tiranti appesi a carrucole di legno (oggi hanno molle di metallo). Il subbio dell'ordito e il subbio del tessuto erano dei cilindri di legno, molto pesanti, muniti di ruota dentata in legno. I pettini per battere i fili della trama erano di legno con i denti formati da asticciole di canna di bambù. La materia, che veniva coltivata in loco per essere tessuta , era : la lana, la seta, la canapa. La lana. E' documentato a Tiezzo venivano allevate le pecore. Fin dal XIV secolo si hanno documenti scritti '' 1315, 3 febbraio. Da questi documenti risulta l'esistenza di pascoli efficienti; quindi vi erano le pecore, vi era la lana. C'è pure una via ancor oggi chiamata ''Armentera'' e c'è la località detta ''Chiaurnic'', termini che richiamano l'esistenza di greggi. Quasi ogni famiglia aveva un piccolo gregge. I più poveri una, due o tre pecore. Oltre il latte, la pecora dava la lana. La tosatura di norma aveva luogo una sola volta all'anno, all'inizio stagione calda. Quindi la lana veniva cardata e poi filata. Tutte operazioni eseguite in casa. Per cardare la lana, veniva usato uno strumento chiamato ''sgradasso '', costituito da un piccolo supporto di legno in cui erano fissati una serie di denti uncinati. Una volta cardata, la lana veniva filata con il fuso e la rocca. La rocca (popolarmente detta ''conocchia'') era un arnese formata da un 'asta lunga di legno recante alla estremità superiore una testa ingrossata , sulla quale si arrotolava la lana da filare per il funzionamento del fuso. Pure il fuso era di legno, di forma rotonda e allungata e gradatamente assottigliantesi alle estremità. Nella sua rotazione veniva prodotta la torsione del filo lana. Il filo di lana così ottenuto veniva avvolto in matasse con l'aspro, o arcolaio (in dialetto ''daspo''). Lavata, era pronta per confezionare calze, maglie, sciarpe. E in certe case più doviziose, col filato veniva confezionato del tessuto. La seta. Tutti i contadini di una certa età (non è necessario essere vecchissimi) hanno un vivo ricordo dell'allevamento dei bachi da seta, ricordo non grato per il lavoro intenso e faticoso che esso richiedeva e non sempre ripagato a dovere. I bachi da seta, secondo una leggenda, furono portati dalla Cina nel 552 da due monaci e consegnati all'imperatore Giustiniano. La loro coltura lentamente si diffuse anche in Italia. Il ''bacologico'' era il luogo dove si facevano nascere i bachi da seta. Risulta che ne esisteva uno anche a Tiezzo, come si desume da una nota del registro necrologico della Parrocchia. ''Anna Tedeschi, moglie al signor Francesco Tosoni di Pordenone, ma dimorante nella sua casa rurale di Tiezzo, per attendere alla educazione dei bachi da seta, morì il 26 aprile 1870 istantaneamente alle ore 11, mentre alle ore 9 pomeridiane cenò col signor Marito senza manifestare alcun sentore di malattia.'' L'incubazione dei bachi richiedeva di norma venti giorni. I bachi venivano allevati per circa un mese; ciò richiedeva molto lavoro e spesso i contadini venivano ''sfrattati'' dalla cucina per lasciare posto ai bachi che, crescendo, diventavano sempre più invadenti. Questi venivano alimentati con la foglia del gelso, era compito precipuo degli uomini il procurarla. Dopo circa un mese di continuo lavoro per nutrirli, veniva preparato il luogo, chiamato ''bosco'' (costituito da fastelli di tralci di vite), dove i bachi da seta si ritiravano e cominciavano a filare il bozzolo. Dopo otto- dieci giorni i bozzoli erano formati; venivano raccolti, staccandoli dalla frasca e portati alla filanda. Ove ora sorge il giardino di Casa Russolo, in Piazza Garibaldi, vi era una filandra, già inattiva quando è stata demolita forse un po' prima dell'inizio della prima grande guerra. Alcune famiglie più abbienti tenevano in casa dei bozzoli, artigianalmente ricavavano la seta che tessevano e avevano così della stoffa di seta. Sia ricordato per inciso: le famiglie quando raccoglievano i bozzoli, ne portavano una sporta alla Madonna, che depositavano ai piedi dell'altare in una capace cesta di vimini, della caratteristica forma orizzontale. Ecco come in casa veniva ricavata la seta. I bozzoli , destinati a venir dipanati per uso famigliare, venivano immersi in acqua calda, operazione che si chiamava ''trattura''. Il bozzolo è composto da due sostanze , la fibroma e la sericina. Nell'acqua calda la sericina si rammollisce: così si separano le prime bave di seta che vengono riunite in un certo numero per mezzo di uno scopino di saggina e poi attaccate ad un aspro. Così il bozzolo è dipanato e si ottengono delle matasse di seta cruda o greggia , che è opaca, ruvida e rigida. Sottoponendola ad un lavaggio in acqua calda con soluzioni saponose si ottiene la seta cotta o sgommata (priva della sericina) che è morbida, liscia e di colore bianco brillante. E' pronta per essere tessuta nel telaio della famiglia e ne usciranno delle camicie , gonne e latri indumenti , e la dote per le giovani. Oggi può sembrare una cosa assai difficile; nel passato però era un lavoro usuale, come se ne può avere conferma dal romanzo ''i promessi sposi'' del Manzoni. Il lavoro del filare e del tessere è continuamente esercitato dalle famiglie. La canapa. La canapa è la fibra del fusto di una pianta erbacea, annuale, alta ¾ metri, con fusto eretto e poco ramificato. Originaria dell'Asia , è assai coltivata in Italia e la canapa italiana è tra le migliori nel mondo. Nel presente lavoro interessa solo come veniva lavorata in modo famigliare nelle nostre case del passato. La presenza della canapa nelle famiglie ha resistito fino ad un passato abbastanza recente: l'ultima guerra (1940-1945) ha visto nuovamente in funzione alcuni telai, che erano ormai lasciati fuori uso. La canapa, seminata normalmente in marzo, veniva raccolta tra la metà di luglio e la prima decade di agosto e le piantine venivano recise col falcetto. Tagliate, venivano lasciate per terra ad essicare. Quindi raccolte le fasci, questi venivano posti nell'acqua per macerare. Se l'acqua del fosso aveva un decorrere lento, la macerazione era più veloce: dai sette ai quindici giorni. Durante la macerazione la canapa doveva essere sommersa nell'acqua, perciò sopra i fasci venivano posti delle grosse pietre e dei legni. Una volta avvenuta la macerazione: i fasci (''mannelle'') venivano estratti dall'acqua. Le varie piante venivano sciacquate, lavoro molto fastidioso per l'odore nauseante della decomposizione. Quindi le mannelle venivano allargate e rimanevano esposte al sole per tre ai quattro giorni, perché si asciugassero. A questo punto aveva luogo la stigliatura, che comprendeva lo spezzamento degli steli con bastoni e la gramolatura (con la gramola, che è uno strumento di legno), per mezzo della quale gli steli venivano sbriciolati e separati dalla filaccia. La filaccia poi veniva pettinata per eliminare lo scarto, cioè la stoppa. A questo punto la canapa era pronta per essere filata e poi passata al telaio per ricavarne lenzuola, federe, asciugamani, tovaglie. Con quella più scarta venivano intrecciate delle corde. La tessitura è stata il mestiere principale a Tiezzo, con una attività durata per ben duemila anni. Concluderemo con una tradizione sanitaria. E' stato detto che col cotone venivano confezionati lenzuola e altri indumenti.

Gondole, forcole e remi

Ogni tipo di imbarcazione veniva costruita tenendo presente le esigenze imposte dalla struttura dei canali e dalla loro tortuosità, unita alle insidie dei bassi fondali. La mancanza della chiglia e del timone faceva sì che le barche, dal fondo piatto, potessero essere manovrate mediante l’uso di un solo remo, dal barcaiolo che sta in piedi a poppa. Questo uso caratteristico del remo appartiene alla cosiddetta “voga alla veneta”. Tale tipo di voga è peculiare in tutte le barche veneziane, che possono vantare di possedere un tipo singolarissimo di scalmo detto “forcola” in veneziano. La “forcola” è ricavata da un quarto di tronco di legno, di solito il noce, di circa 60 cm di diametro. Ha una forma assai complessa che varia a seconda delle caratteristiche del corpo e dello stile di voga di ogni vogatore. E’ solo sfruttandone appieno la forma che il gondoliere, manovrando il remo con perizia, riesce a imprimere alla gondola qualsiasi direzione di moto. Le forcole vengono tutte costruite a mano, lavorando legni rinomati per la loro elasticità, con l’ausilio di attrezzi che solo esperti artigiani sono in grado di usare. Oggigiorno vengono utilizzate sia dagli amanti della voga alla veneta che come oggetti di artigianato tipico veneziano da esibire come opera d’arte. Una forcola è addirittura esposta a New York al Metropolitan Museum. I costruttori di forcole si chiamano “remeri” e oltre a queste costruiscono anche i remi, che la Serenissima continuava a richiedere in enorme quantità. A Venezia sono ormai in pochissimi a continuare la tradizione del suddetto mestiere, tra questi: F. Furlanetto, S.Pastor e P. Brandolisio. La grandezza di Venezia e la sua potenza sono sempre state indissolubilmente legate alla sua vocazione marinara, pertanto alla produzione di un nutrito numero di imbarcazioni che venivano realizzate in un luogo fulcro per questa attività: l’Arsenale. L’ Arsenale occupava una vasta area di Castello e dava lavoro a migliaia di operai fino a tempi relativamente recenti. Esistevano comunque altri piccoli cantieri dove si costruivano le barche; tali cantieri erano e sono ancora oggi chiamati “squeri”. Negli squeri i “maestri d’ascia” si tramandavano di padre in figlio i segreti della lavorazione dei legni e la brillantezza dei colori, della dipintura e degli intagli decorativi. Nella costruzione delle gondole, in particolare, vengono usati 8 tipi di legno pregiato: il rovere, il ciliegio, il larice, il tiglio, il noce, il mogano e l’olmo. Ognuna di queste essenze viene utilizzata per realizzare componenti specifiche della barca, lavorata a mano utilizzando gli attrezzi della tradizione: l’ascia, la pialla, la sega e il martello. Le curvature delle tavole sono ottenute naturalmente bagnando e scaldando il legno con il fuoco. La linea della barca a poppa viene progettata tenendo conto del peso del proprietario e per le misurazioni si usa ancora il piede veneto, il più adatto all’operazione. La gondola ha una curiosa forma a mezza luna, perché poggia sull’acqua solo una piccola parte del suo scafo allo scopo di diminuire l’attrito. E’ inclinata sul fianco destro rispetto al pelo dell’acqua e viene mantenuta in equilibrio dal remo sulla forcola e grazie al gondoliere che, dalla parte opposta, riesce a manovrarla con grande abilità. Le antiche gondole erano provviste di una copertura arcuata, chiamata “felze” e decorate da preziose stoffe e tappeti. Per evitare le ostentazioni di ricchezza, i magistrati deliberarono di usare un solo tipo di stoffa per il “felze”: un panno di lana di colore nero chiamato “rascia”. Gli “squeraroli” facevano parte della Scuola di Arti e Mestieri e la loro sede sorgeva presso la chiesa di S. Trovaso, dove ancora oggi si trova uno squero. Attualmente, solo pochi squeri sono rimasti in attività: Tramontin, Coop. Di S. Trovaso, a Dorsoduro, Crea e Dei Rossi alla Giudecca.

Ricami e merletti

Le origini dell’arte del ricamo e del merletto risalgono circa al Quattrocento e riguardano principalmente le isole della laguna di Venezia , su tutte Burano, Pellestrina e Chioggia. E’ nel territorio della gronda lagunare che nel corso dei secoli passati vennero raggiunti i massimi livelli di espressione di quest’arte. Una visita di queste zone è caldamente consigliata: se avrete la fortuna di incontrare qualche “merlettaia” intenta a ricamare davanti all’ingresso di casa resterete a bocca aperta di fronte alla velocità, alla maestria e all’abilità delle sue mani … La fortuna del merletto veneziano seguì le sorti della Repubblica: raggiunse l’apice tra i secoli Cinquecento e Settecento e subì un crollo con il declino della Repubblica ed il cambiamento della moda anche se a Burano nella seconda metà dell’Ottocento vi fu un segnale di ripresa significativo: per volontà della contessa Andriana Marcello e Fabrizio Fabbri venne fondata una scuola di merletto che oggi è stata trasformata in un Museo; a Pellestrina accadde qualcosa di simile qualche anno dopo per volontà di Michelangelo Jesurum. L’arte del merletto veniva tramandata di madre in figlia e veniva praticata su commissione oltre che per la preparazione della ‘dote’ delle giovani da maritare. Il ricamo veniva praticato molto anche nei conventi e nei monasteri sempre su commissione e per la produzione di paramenti sacri ( da segnalare a Burano le splendide tovaglie da altare del Duomo). All’aumentare della domanda di pizzi se ne avviò l’insegnamento presso la popolazione femminile in intere isole: Burano per l’ago e Pellestrina per i fuselli. Durante il periodo di massimo splendore il merletto divenne una sorta di status symbol irrinunciabile che né le leggi suntuarie (leggi volte a frenare lo sfarzo eccessivo dei Patrizi veneziani) né il Magistrato alle Pompe designato dal Maggior Consiglio riuscirono a fermare. Pizzi e merli elaborati ornavano i polsini, le fusciacche , i fazzoletti e gli abiti dei nobili: le fogge e le trame si ispiravano a motivi geometrici o a elementi della natura come fiori e foglie. La fama delle merlettaie veneziane crebbe al punto da essere richieste presso le più famose corti europee, una fra tutte la corte del Re di Francia Luigi XIV: a nulla servirono le minacce della Magistratura Veneziana, che si accorse troppo tardi del valore di questa produzione sempre sottovalutata perché praticata esclusivamente da donne. Tra i punti più famosi citiamo il ‘ponto in aria’ che veniva lavorato senza alcun tipo di supporto e che quindi dipendeva totalmente dall’abilità della merlettaia nel ricamare con l’ago, il ‘ponto de Buran’ tipico delle merlettaie ‘buranèle’, il ‘ponto a fogliame’ estremamente elaborato e ricco, il ‘ponto de Venezia’ noto anche come ‘punto a roselline’ fragile e molto delicato. Nelle zone di Chioggia e Pellestrina da citare la tecnica di ricamo a fuselli (o mazzette) detta anche tombolo dal nome del cuscino a cilindro su cui venivano fissati.

Perle Veneziane, 'paternostri' e 'conterìe'

Perle, perline e murrine in vetro rappresentano una delle espressioni caratteristiche dell’artigianato veneziano più antico e raffinato. Quest’arte è oggi rara tanto che non è facile trovare perle veneziane originali. Lascia comunque ben sperare il processo di recupero delle vecchie lavorazioni ad opera del Consorzio Venezia Perle e la costituzione di una scuola per l’apprendimento delle tecniche tramandate dalle perlaie più esperte. La produzione delle perline in vetro , a partire dalla tiratura della canna, è un processo affascinante che richiede molta abilità ed esperienza e che inizia all’interno delle fornaci muranesi. Le prime testimonianze storiche relative alla produzione di perle risalgono al XIII secolo. Pare che nelle fornaci di Murano i maestri vetrai iniziarono a fabbricare paste vitree finalizzate ad imitare le pietre preziose ed il cristallo di rocca, molto richiesto perché utilizzato per fabbricare i ‘paternostri’ ovvero le corone da preghiera. Le prime perle nascono quindi per imitazione del più nobile cristallo. Lo sviluppo delle lavorazioni legato all’aumentare della richiesta portò ad affinare le tecniche e ad aumentare i tipi di perle ed i loro decori. Collane e ornamenti vari venivano prodotti in grande quantità da una manovalanza costituita quasi esclusivamente da donne , le impiraresse dal termine dialettare 'impirar', ovvero infilare. Nel corso del XV° secolo nacque un nuovo tipo di perla, la rosetta. Si tratta di una perla ottenuta dal taglio di una canna di vetro di vari colori e arrotondata mediante molatura destinata ad avere particolare successo nel tempo. Tradizionalmente l’invenzione di questo tipo di canna viene attribuito a Maria Barovier figlia del mastro vetrai Angelo: si tratta di una canna a mosaico risultante dalla sovrapposizione di molteplici canne e presenta al suo interno un disegno a stella a dodici punte, dai colori bianco, rosso mattone e blu, che si protrae per tutta la lunghezza. Il successo fu enorme e le rosette iniziarono ad essere esportate in tutto il mondo tanto che nel tempo ne vennero ritrovate in Perù, in Africa e persino negli Stati Uniti. Cambiò l’atteggiamento stesso dei veneziani verso questo mestiere. La grande richiesta portò ad una maggiore consapevolezza del suo potenziale commerciale e alla volontà di proteggere la fabbricazione delle conterie dalla concorrenza europea, in primis quella tedesca ( e nel corso dei secoli successivi quella olandese, francese e spagnola). Da questo momento la produzione di perle di vetro non ebbe più ostacoli. Oltre alla produzione di paternostri (perle di grosso diametro che venivano infilzate in una sorta di spiedo metallico per mantenere il foro centrale) si aggiunse la lavorazione delle margherite, perle di piccole dimensioni ottenute tagliando una canna forata. Il duplice sistema di lavorazione ebbe come conseguenza un adeguamento anche a livello normativo con la nascita della Mariegola dei Paternostreri e Margheriteri. Al XVI sec. risale la nascita di un’altra tipologia di perla destinata a grande successo: la perla a lume o a lucerna ottenuta lavorando alla fiamma di un lume ad olio una canna massiccia di vetro trasparente e smalti. I perlai lavoravano tenendo nella mano sinistra un pezzo di filo di ferro mentre con la destra tenevano la canna che scaldata alla fiamma veniva fatta colare attorno al filo. La nuova tecnica consentì di fabbricare perle estremamente varie per forma e colore come testimoniano i campionari di perle a lume del tempo composti da migliaia di perle differenti. I ‘supialume’ , così vennero definiti inizialmente i perleri, ancora nel XVII secolo non avevano una corporazione propria; si aggregarono pertanto all’Arte dei peternosteri e margheriteri anche se a causa dei frequenti litigi se ne divisero nella prima metà del secolo. Nel frattempo a Venezia iniziarono a diffondersi laboratori a lume e negozi organizzati in modo più imprenditoriale: ancora oggi presso il Museo Correr sono conservate una quarantina di stampe che rappresentano una sorta di primordiali depliant pubblicitari di queste fabbriche. La produzione di perle conobbe nelle epoche successive periodi di sviluppo e periodi di stasi. L’Ottocento segna l’ultimo periodo di forte sviluppo delle conterie. Il Novecento infatti, dopo un’iniziale periodo positivo, portò con sé il declino definitivo di quest’arte.

I Tessuti, Venezia

Grazie ai contatti con Bisanzio, nel corso del XIII secolo Venezia fu caratterizzata da una raffinata produzione di tessuti, sete e velluti che godettero di grande importanza tanto da essere oggetto d’esportazione in tutta Europa. Nel corso del XIV secolo maestranze tessili (per lo più di esuli) provenienti da Bisanzio e dalla città di Lucca, si stabilirono a Venezia incrementando notevolmente la produzione di tessuti riccamente lavorati e contribuendo all’affinamento delle tecniche di lavorazione e decorazione dei tessuti. Venezia eccelse particolarmente nella lavorazione della seta e del cotone che importava dai suoi traffici con l'Oriente oltre a quella della lana le cui fasi principali venivano tuttavia decentrate nelle zone dell’entroterra e della pianura veneta (riservandosi comunque le fasi finali della lavorazione dei panni di lana). Si trattava di una scelta motivata da questioni sostanzialmente ‘pratiche’: prima di tutto la vicinanza alla materia prima (i pascoli da cui ricavare la lana), in secondo luogo dal fatto che la lavorazione della lana richiedeva ampi spazi e acqua corrente (es. per la ‘follatura’) e che alcune fasi - soprattutto il lavaggio e la tintura- producevano cattivi odori e inquinamento delle acque dei canali veneziani. La tessitura rappresentò per lungo tempo un vero e proprio primato veneziano soprattutto per quanto concerne la produzione di qualità, la rifinitura dei tessuti e, in virtù della sua posizione privilegiata nel Mare Mediterraneo, il commercio dei tessuti finiti. Particolarmente rinomati i velluti (dal latino vellus, il mantello tosato di pecore e capre ) risultato di una tecnica di lavorazione piuttosto complessa che si diffuse a Venezia nel corso del secolo XIV, con l'arrivo dei maestri lucchesi, i tessuti broccati che risalgono al Settecento e i damaschi, che si distinguono perché caratterizzati da contrasti tra lucido e opaco. La tecnica di lavorazione di questi tessuti, tramandata di generazione in generazione, richiedeva la presenza di due lavoranti esperte per ogni telaio che in coppia creavano trame e orditi intrecciando i fili da cui prendevano vita i tessuti. Oltre alla tecnica fiore all’occhiello della produzione veneziana furono i motivi decorativi ideati dai tessitori veneziani nel corso dei secoli: sono celebri gli archivi dei disegni della Tesseria Bevilacqua dove sono raccolti circa tremilacinquecento disegni da cui ancora oggi nascono tessuti preziosi impiegati nell’arredamento e nell’alta moda. Fanno ugualmente parte della storia e della cultura veneziana i tessuti Fortuny, i cui motivi si rifanno a disegni orientali e ai dipinti del rinascimento veneziano, i motivi bizantini e veneziani che adornano i velluti stampati a mano dalla famiglia Gaggio o i broccati ed i prodotti delle tessiture Rubelli.

Il pavimento alla veneziana

Il pavimento alla veneziana è il prodotto di un’arte antica e poverissima che ancora oggi, in epoca di standard edilizi e materiali prefabbricati, è molto richiesto ed apprezzato. Le origini della tecnica sono molto antiche: alcune testimonianze risalgono all’antica Grecia e all’epoca Romana, periodo in cui il “terrazzo” o il “battuto” si diffuse in tutta Italia. Il terrazzo viene detto ‘alla veneziana’ proprio perché è nel territorio lagunare che vennero raggiunti i livelli più elevati di espressione della tecnica particolarmente adatta a rivestire i pavimenti dei palazzi di Venezia molto instabili e soggetti a crepe e dislivelli perché costruiti su fondali paludosi. Il terrazzo veniva fabbricato utilizzando frammenti di ciottoli, marmi e pietre provenienti dai fiumi e dalla cave di estrazione di proprietà della Serenissima. Le pavimentazioni risultavano particolarmente ricche di sfumature e riflessi e per questo molto apprezzate. Le origini della lavorazione, si è già detto, risalgono all’epoca romana durante la quale si produceva il progenitore del terrazzo, il ‘pavimentum testaceum’ una mescolanza di coccio pesto e calce in cui venivano mescolati delle scaglie di pietra di diverso colore. In epoca bizantina il pavimento battuto si diffuse notevolmente fino ad una forte battuta d’arresto coincidente con le invasione barbariche. Fu grazie agli artigiani del Friuli se l’arte venne recuperata in epoche successive e tramandata agli artigiani veneziani che nel corso del XVII sec. formarono la scuola di arti e mestieri dei terrazzieri e la portarono al massimo splendore. Ancora oggi manufatti di particolare pregio sono visibili in numerosi palazzi veneziani: su tutti segnaliamo Palazzo Ducale, Ca’ Rezzonico, Palazzo Querini Stampalia. In laguna da segnalare i reperti antichi ritrovati nell’isola del Lazzaretto Nuovo laddove un tempo sorgeva il palazzo del Priorado, abitazione del Magistrato alla Sanità incaricato alle operazioni di controllo sanitario dell’isola, presso cui le navi ed i carichi provenienti dall’estero venivano messi in quarantena per scongiurare epidemie.

I Doratori, Venezia

I giovani lavoranti dovevano fare un periodo di apprendistato, che durava anche anni, con esame finale prima di aprire una bottega per proprio conto ed avere il titolo di maestro. Le Corporazioni si estesero a tutti i campi di produzione artigianale creando una classe lavorativa altamente specializzata in grado di contrastare ogni concorrenza esterna. La Dominante, che ovviamente non poteva contare sulla propria produzione agricola, aveva la necessità di portare ai massimi livelli la lavorazione dei manufatti per primeggiare su tutti i mercati europei. Le cosiddette Arti Minori raggiunsero livelli di eleganze e raffinatezze notevoli soprattutto perché Venezia poteva contare su materie prime originalissime ed esclusive che arrivavano dall’Oriente attraverso la lunga Via della Seta percorsa da mercanti e carovanieri. Ogni Arte possedeva un’insegna, (alcune preziosissime sono conservate al Museo Correr): tavole lignee su cui era dipinto il relativo mestiere con le proprie caratteristiche e gli strumenti usati per esercitarlo. Niente era più indicato dell’uso dell’oro per celebrare i fasti della Serenissima. L’oro del resto era molto diffuso nella ricca Bisanzio; era il mezzo perfetto per rappresentare la sacralità di un luogo, un oggetto, un tessuto e Venezia lo aveva sperimentato ben presto nei suoi migliaia di metri quadrati di mosaico della Basilica di San Marco. I ‘Doradori’ usavano quindi la foglia d’oro zecchino (precedentemente preparata nella Scuola dei Tira-battioro che ancor oggi, con ben altre funzioni, si può visitare in quella deliziosa, elegante costruzione baroccheggiante che si trova a San Stae) al termine di numerose fasi di lavorazione, con impasti di gesso, argilla rossa, chiara d’uovo, colla di pesce a cui seguiva la fase di brunitura con pietra d’agata. Essi applicavano la loro Arte a diversi ornamenti: dalle navi da parata, fra cui il dogale Bucintoro, ai cassoni, alle testiere di letti e baldacchini, agli armadi per reliquiari, cornici e soprattutto i soffitti di cui rimangono preziosissime testimonianze dell’oro associato ai colori della città che sono il rosso e l’azzurro. Pensiamo ai soffitti dell’antica Scuola di Carità (oggi inglobata nelle Gallerie dell’Accademia) o alla Scuola di San Rocco o soprattutto alla eccezionale decorazione delle sale di Palazzo Ducale. L’opera dei ‘Doradori’ si diffuse ancor più capillarmente nel ‘700 quando andarono di moda le porte ed il mobile Rococo’ laccato e dorato, o le statue dei famosi ‘Mori’ con turbanti reggenti fruttiere o torce luminose o nelle parti lignee dei teatri. Di ‘teatri’ Venezia ne contava moltissimi fra cui il gioiello della Fenice, eretto nella seconda metà del ‘700 su disegno di Giannantonio Selva. La ricca decorazione a stucchi, intagli, pannelli del Teatro e delle Sale Apollinee destavano l’ammirazione del mondo per la loro preziosità e magnificenza. I drammatici roghi di cui fu oggetto non hanno cancellato questo splendore reso immortale, come la vita della fenice medesima, dalle fedeli ricostruzioni. Ancor oggi gli ornamenti dorati ci sorprendono, sono bellissimi, sono partecipi e protagonisti dello spettacolo stesso perché costituiscono il contesto più raffinato e speciale per accogliere l’arte e la musica eccelsa. Di ‘Doradori’ ne son rimasti pochissimi: in campo San Stefano o accanto alla Ruga Giuffa a Santa Maria Formosa, ed è con grande rispetto che entriamo nelle loro Botteghe, a rubare con gli occhi i bagliori di una delle più antiche Arti e Mestieri della città di Venezia.

L'Arsenale e i Carpentieri

L’Arsenale è il simbolo della potenza di Venezia che era stata battezzata ‘il cuore del Veneto’ (1509). Il primo nucleo dell’Arsenale nasce nel 1104 con un'imposizione dello Stato sui singoli carpentieri che fino ad allora avevano lavorato negli ‘squeri’ ovvero i piccoli cantieri cittadini. La parola ‘squero’ deriva da squadro, il termine con cui venivano chiamati questi cantieri, forse legato alla difficile arte della costruzione navale basata sulla geometria e sulla matematica. Ma altrimenti si può far derivare la parola da 'sorgier', lo scalo degradante verso l’acqua. Inizialmente conveniva di più lavorare per i privati, da un punto di vista economico si guadagnava meglio, ma nel tempo essere ‘arsenalotti’ era diventato un grande privilegio, significava essere lavoratori protetti e difesi dalla fame e dalla peste da parte dello stato che li considerava fonte di ricchezza economica e di sicurezza militare. Nel 1374 l’Arsenale si era assicurato il monopolio della costruzione delle galee, venne addirittura vietato l’acquisto del legname o la costruzione delle imbarcazioni fuori città. L’arte più importante nell’Arsenale era quella dei ‘marangoni’ che costruivano lo scafo e gli interni dell’imbarcazione, costituivano infatti l’80% dei lavoratori. Gli arsenalotti lavoravano dall’alba al tramonto, e sebbene le paghe non fossero alte, godevano di benefici aggiuntivi quali alloggi gratuiti, distribuzioni di vino, una sorta di assistenza sanitaria e una tutela particolare contro le malattie e gli infortuni. La responsabilità tecnica dell’Arsenale era affidata a tre Patroni o detti anche Signori che alloggiavano in tre padiglioni: Inferno, Purgatorio e Paradiso. Questi, dal 1442 dovevano riferire delle loro attività a tre senatori periodicamente.

Pesca nella laguna Veneta, attrezzature

La Repubblica della Serenissima aveva emanato una serie di leggi a regolamentare l'attività della pesca, essendo quest'ultima una delle principali attività veneziane. La regolamentazione riguardava non solo l'attività di pesca in sé, ma anche le attrezzature utilizzate per pescare. La misura e l’ampiezza delle maglie delle reti da pesca erano sancite da decreti che ne determinavano il modo, i luoghi e i tempi d’impiego. Una volta erano gli uomini e le loro donne a tessere le reti, usavano la canapa per le reti più grandi, il lino per quelle più sottili, oggi invece il certosino lavoro manuale è stato sostituito dalle macchine e il lino e la canapa dalle fibre sintetiche. Nascono così le reti a strascico, le serraglie, le reti libere, differenziate a seconda del tipo di pesca e delle acque nelle quali vengono utilizzate. Le ‘paranzelle’ sono le più grandi reti a strascico della laguna. Tra le reti a strascico c’è una rete detta ‘tartanella’, più piccola della paranzella, trattenuta al fondale da una ventina di piombini. Il pescatore era spesso l’unica fonte di sostegno della famiglia, quindi si prestava molta attenzione alla sua salute. Gli esorcismi, le feste rituali di cui le origini sono risalenti all’epoca paleocristiana, la disponibilità con cui si partecipava all’abbellimento delle chiese parrocchiali sono derivati da questa situazione. Ecco anche perché i sopravvissuti ad un naufragio o a tempeste avevano l’obbligo di ringraziare il Signore commissionando rappresentazioni pittoriche della scena. Le imbarcazioni erano sempre ornate da immagini della Madonna di Marina o il Cristo di S. Domenico o due angeli, in quanto poste alla protezione divina.

La Gondola, Venezia

Gondola e Venezia: non si può parlare di una senza parlare dell'altra, al punto che la gondola oggi viene considerata come un simbolo della città. L'origine della gondola è antica e risale a oltre mille anni fa. L'antenata della gondola si chiamava scaula ed era un'imbarcazione a remi decisamente più tozza, dalla forma a guscio di noce. Con il passare delle generazioni la gondola assunse un aspetto decisamente più slanciato con la tipica carena piatta, perfetta per non incagliarsi nei bassi fondali della Laguna.L'etimologia sembra essere controversa. Alcuni sostengono che il nome derivi dal latino cymbula (barchetta) oppure da concha (concula=conchiglia). Altri asseriscono che derivi dal greco kuntelas dovuto all'unione delle parole kontos (corto) e helas (navicella). Si ha notizia ufficiale di una "gondulam" fin dal 1094, citata in un decreto del doge di allora, Vitale Falier. La gondola nella sua lunghezza La lunghezza della gondola è di m. 10,85 e la larghezza media circa m. 1,40. Vari sono i tipi di legno impiegati per la sua costruzione: abete, ciliegio, noce, olmo, quercia, tiglio e altri ancora. La gondola viene assemblata con circa 280 pezzi lignei e pesa intorno ai 350 kg. Oltre allo scafo vero e proprio ci sono altre parti fondamentali per vedere completata la gondola, esse sono: i ferri (uno a prua ed uno a poppa) e la forcola, (il supporto dove poggia il remo), la cui etimologia deriva dalla forcella o "morso", che è il punto dove viene applicato il remo. Nei tempi antichi era molto diffuso utilizzare il felze. Esso era una cabina chiusa a metà della gondola ed era come un salotto dell'epoca, perfetto per gli incontri galanti, nascosto dagli occhi dei curiosi. Ferri della gondola Il peso del ferro di prua va dai 10 kg. in su, a seconda del metallo usato. I sei "denti" davanti del ferro rappresentano i sei sestieri di Venezia, quello dietro la Giudecca, mentre la parte superiore simboleggia il copricapo del doge. La forcola è in radica di noce e viene modellata dal remer, il quale fabbrica anche i remi della gondola (lunghi m. 4,20), che sono ricavati dal faggio stagionato. Presso la Chiesa della Salute, tra S. Gregorio e la Fondazione Guggenheim si trova il laboratorio artigianale di costruzione di forcole e remi da gondola condotto da Saverio Pastor. Dorsoduro 341, Fondamenta Soranzo detta Fornace. Squero San Trovaso I cantieri di Venezia dove vengono costruite le gondole si chiamano squeri, dal greco "eskharion". Un tempo esistevano decine di squeri in città, infatti nel '500 circolavano circa 10.000 gondole. Molti squeri erano distribuiti lungo le sponde del Canal Grande, ma poichè essi ostacolavano la navigazione un decreto del 1433 li fece spostare in Arsenale. Attualmente gli squeri rimasti in centro storico sono solo due: lo Squero di San Trovaso e lo Squero Tramontin. Le gondole attualmente sono circa seicento. Forma asimmetrica della gondola La gondola ha una caratteristica forma asimmetrica (verso destra), creata appositamente per permettere al gondoliere di vogare con minore sforzo. Il procedimento per fabbricare la gondola risulta lungo e laborioso, può durare alcune settimane. Lo squerarolo deve sagomare la gondola su speciali modelli (i "sesti"), deve curvare vari pezzi lignei al fuoco. Il tutto deve essere perfetto e questo si ottiene solo grazie all'esperienza e alla bravura dei maestri d'ascia. Il più famoso tra essi fu Domenico Tramontin che definì la forma attuale della gondola nei primi anni del '900. Citiamo inoltre due noti maestri d'ascia che in tempi più recenti hanno dato il loro apporto allo sviluppo e alla salvaguardia della gondola: Corrado Costantini e Giovanni Giuponi (autore della "disdotona", imbarcazione da sfilata a 18 remi). Forcola La gondola viene dipinta di colore nero, considerato il colore dell'eleganza dai veneziani. Fino al '500 la gondola poteva sfoggiare vari colori e ornamenti che furono proibiti da decreti del Senato. Alcuni sostengono che il colore nero della gondola fosse dovuto al lutto per la peste del 1630 che aveva decimato la popolazione, ma il colore del lutto a Venezia, durante la Repubblica Serenissima, era il rosso. Fino all'800 c'erano circa 20 traghetti di gondole per attraversare il Canal Grande, poi drasticamente ridotti in seguito alla costruzione del Ponte dell'Accademia prima (1854), e del Ponte degli Scalzi, poi (1857). Questi due ponti, assieme a quello di Rialto (1588) e al Ponte della Costituzione (2008), consentono di passare il Canal Grande senza l'uso di barche.La gondola da traghetto risulta più larga di quelle normali, viene vogata da due gondolieri e può trasportare fino a 14 persone. Chi conduce la gondola è naturalmente il gondoliere, che nei secoli passati si chiamava barcaiolo. Ogni famiglia nobile di Venezia aveva al proprio servizio un gondoliere privato detto de casada. A quei tempi i gondolieri erano riuniti in corporazione ed avevano la propria sede presso la Chiesa di S. Silvestro. Il mestiere di gondoliere veniva tramandato di padre in figlio, ma attualmente la nomina avviene dopo un concorso che si tiene periodicamente. Ha fatto scalpore nel 1999 la prima richiesta di una donna di diventare gondoliere. La tedesca Alexandra Hai, originaria di Amburgo, che voga la gondola da molti anni, ha effettuato alcuni concorsi, ma senza successo. La legge per le pari opportunità e alcuni ricorsi le potrebbero però far ottenere lo stesso l'ambita licenza. La prima donna gondoliere si chiama Giorgia Boscolo.