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Archeologia e mosaici

L'arte del vetro di Murano

Nel XIII secolo l’arte dei “fioleri” (da fiole: fiale o bottiglie) assieme ai mosaici e ai vetri soffiati si sviluppa enormemente ed acquista un’importanza così grande per l’economia cittadina che viene sottoposta alla Magistratura della Giustizia che ne tutela l’attività. Nel 1291, su ordine del Gran Consiglio, per proteggere la città dal pericolo di incendi derivanti dall’uso delle fornaci, tutta l’attività vetraria viene spostata a Murano. Vengono autorizzati a rimanere solo i “verixelli”, cioè i piccoli forni, purchè ad una certa distanza dalle case. Dalle fornaci di Murano uscivano prodotti di ogni tipo estremamente raffinati, i più apprezzati in tutta Europa e talmente belli da essere immortalati nei dipinti dei grandi pittori veneziani. Angelo Barovier, appartenente ad una delle famiglie storiche dell’isola, nella metà del XV secolo realizzò una vera e propria rivoluzione tecnologica della lavorazione del vetro che porterà ad uno sviluppo eccezionale nei due secoli successivi: creò un vetro purissimo del tutto simile al cristallo di rocca. L’arte vetraria veneziana conobbe il suo massimo splendore nel XVI secolo, i maestri vetrai perfezionarono i materiali vitrei ed elaborarono tecniche manuali così particolari da essere soggette ad una vera e propria attività di spionaggio e, malgrado gli sforzi intrapresi per impedire la fuga dei “segreti” di lavorazione, artigiani del settore si stabilirono in vari paesi europei impiantando fornaci per la produzione di oggetti in vetro. La concorrenza mise in crisi l’attività veneziana che entrò in decadenza con la fine della Repubblica e solamente nel XIX secolo si ebbero i primi segni di ripresa con l’istituzione, nel 1861, del "Museo del Vetro" e l’annessa scuola di disegno a Murano. Antonio Salviati, altro nome importante del vetro veneziano, creò un laboratorio di mosaici che abbellirono splendidi edifici in tutto il mondo. Il tecnico vetrario V. Moretti nel 1871 riuscì a riprodurre, quasi dopo un millennio, le “murrine romane” entrate a far parte da allora nel repertorio artistico di murano. L’arte vetraria del XIX secolo ha raggiunto un alto livello di perfezione e ancora oggi Venezia basa la sua economia sulla produzione di magnifici oggetti in vetro grazie all'originale design e alla raffinata esecuzione dei maestri vetrari delle grandi ditte di Murano: Barovier & Toso, Nason & Moretti, Seguso, Salviati, Venini e molti altri. Venezia continua a produrre anche magnifiche perle di vetro che, dopo un periodo di oblio, stanno avendo un particolare risalto nel tessuto produttivo e commerciale della città... Molte botteghe sparse in tutti i sestieri soddisfano sia la richiesta turistica sia quella dei grandi stilisti che hanno adottato le perline nelle creazioni di moda. La storia delle perline è molto interessante: nacquero dall'esigenza di imitare i grani delle corone da preghiera dette “paternostri” ma anche dalla necessità di emulare le pietre preziose che da sempre tutti gli uomini desideravano avere per adornarsi. A tal proposito si racconta la leggenda che Marco Polo tornando in città dai suoi viaggi in Oriente abbia raccontato come quei popoli amassero particolarmente le perle e abbia suggerito a due intraprendenti vetrai di riprodurle in vetro. Si iniziò così, come testimonia la ricomparsa della canna forata nel XIV secolo, necessaria per la loro produzione, una intensa attività di imitazione del corallo, delle conchiglie e delle pietre preziose. Ben presto le perline di vetro furono richiestissime nei vari mercati e rappresentarono un bene di scambio con altri prodotti, usate persino da Cristoforo Colombo come dono agli indigeni. Le lavorazioni della canna di vetro tirata, sia massiccia sia con il foro interno, erano di due tipi: quella soffiata alla fiamma (“al lume”) dagli artigiani chiamati appunto “suppialume” e quella eseguita con uno strumento simile allo spiedo (“allo spieo”) , quindi le perle venivano poi scaldate nel forno moderatamente caldo per arrotondarle nella forma voluta. Tra quelle di più grandi dimensioni (circa 1cm) e lavorate ad una ad una, modellate e decorate a mano troviamo oggi: le perle a lume, le perle a rosetta, i paternostri, le perle a vetro soffiato. Tra quelle più piccole e di dimensione tutte uguali ottenute dal taglio di una lunga canna forata le margherite. Anche le murrine, piccolissime miniature di vetro a soggetto floreale o geometrico, rappresentano una delle più interessanti e felici specializzazioni veneziane preziose per disegno e colori. Ad imitazione del mosaico i vetrai iniziarono questo lavoro nella seconda metà dell’800 riprendendo una tecnica antica che imitava certa produzione di vasi romani ricavati da una pietra chiamata “murrha”. Si inizia lavorando in una successiva serie di fasi la “canna millefiori”, costituita da vari strati concentrici che danno, in sezione, il motivo a stella. La diffusione e conoscenza degli splendidi manufatti si ebbe grazie alle Esposizioni della Biennale d’Arte, ma soprattutto alla manifestazione di Ca’ Pesaro, dove nei primi anni del 1900 artisti come Vittorio Zecchin, Giuseppe Barovier e i Fratelli Toso portarono l’arte del vetro di Murano sulla scena internazionale in quello stile conosciuto in Europa col nome di Liberty. Interessante risulta essere la visita al Museo Vetrario di Murano che, dopo un sapiente restauro, è possibile apprezzare seguendo la storia del vetro dalle sue origini al giorno d’oggi secondo lo schema adottato della suddivisione cronologica e stilistica che ne permettono una maggiore e piacevole comprensione.

Mosaici interni della Basilica San Marco, Venezia

Quando si pensa alla basilica di San Marco, le prime immagini che vengono alla mente sono quelle dei mosaici e dei loro sfondi dorati. I mosaici rivestono per oltre 8000 metri quadrati le pareti, le volte e le cupole della basilica marciana. Essenzialmente bizantina nella sua concezione architettonica, la basilica trova nel mosaico il suo naturale elemento integratore. La decorazione musiva si sviluppa in circa 8 secoli di storia della basilica. I mosaici della basilica di San Marco raffigurano storie tratte dalla Bibbia (Antico e Nuovo Testamento), figure allegoriche, vicende della vita di Cristo, della Vergine, di San Marco e di altri santi. I mosaici, nei quali dominano i colori caldi, in particolare l'oro, ornano l'ampio spazio della basilica, che misura 28 metri di larghezza e raggiunge i 21 in altezza nelle arcate. Lo spazio è avvolto da luce velata, come nelle chiese mediorientali, che varia continuamente nelle diverse ore del giorno, con effetti suggestivi e di grande intensità. Nei mosaici di San Marco troviamo la più significativa testimonianza della storia, delle aspirazioni, della fede di Venezia e dell'evolversi dei linguaggi e delle tendenze che hanno caratterizzato la sua arte: dalle origini greco-bizantine, alle espressioni artistiche autoctone e all'abilità di interpretare e personalizzare messaggi importati dall'esterno fino all'odierna, difficilissima arte della conservazione e del ripristino di questo preziosi e complessi manufatti.

Orme dei dinosauri di Rovereto

Le orme di centinaia di dinosauri carnivori ed erbivori di forme e dimensioni differenti sono impresse lungo un ripido colatoio di circa duecento metri presso i Lavini di Marco, sulle pendici del Monte Zugna, a Sud di Rovereto. A Rovereto c’è il più grande giacimento di impronte fossili di dinosauro mai rinvenuto in Italia. Qui sono venute alla luce centinaia di orme di dinosauri erbivori e carnivori, risalenti a 200 milioni di anni fa, in pieno giurassico, quando l´attuale roccia del Monte Zugna, costituiva la riva limacciosa del Mare di Tetide. Le piste dei dinosauri sono ben visibili su un ripido colatoio, divise in due gruppi principali: uno disposto più in basso, a un centinaio di metri dalla strada forestale; il secondo, circa cinquanta metri più a monte. Sono visibili un buon numero di impronte dei dinosauri erbivori, ancora in ottimo stato di conservazione. Tra gli esempi più interessanti, il tallone arrotondato dell’animale che scivolava nel fango a ogni falcata, i tre abbozzi di zoccoli anteriori, le piccole collinette di fango d´espulsione che si alzavano ai lati, passo dopo passo. I dinosauri trentini erano i più grandi Ornitischi, lunghi dai 5 ai 6 metri, coda compresa, pesavano tra la tonnellata e le due tonnellate, erano erbivori e procedevano a una velocità di 3 - 5 chilometri all´ora. Di dimensioni più ridotte, i Teropodi, carnivori, tallonavano da vicino i grandi erbivori cercando l´occasione di un attacco a qualche elemento isolato. Proprio per il loro grande significato scientifico e per il rischio di deperimento cui sono soggette tutte le piste dei Lavini di Marco, il Museo Civico di Rovereto ha provveduto all'esecuzione dei calchi e al modello digitale del terreno interessato dalle orme. A titolo di esempio vengono proposte due piste lasciate da dinosauri erbivori e carnivori. Per permettere a un numero sempre maggiore di persone di apprezzare appieno il significato geologico e paleontologico del sito, unico in Europa, la Sezione Didattica del Museo Civico il secondo sabato di ogni mese, da aprile a ottobre organizza visite guidate con esperti che non solo mostrano i reperti, ma spiegano attraverso "tappe tematiche" la storia geologica e l'evoluzione della nostra regione.

Preistoria e Protostoria in Friuli

La preistoria, almeno nella misura in cui la conosciamo, non consente l'individuazione di culture con caratteristiche regionali o zonali. Per un lungo periodo di tempo, misurabile in un milione di anni prima della nascita di Cristo, l'umanità visse divisa in piccoli aggregati sparsi e sporadicamente comunicanti, che dovevano soddisfare alcuni bisogni vitali o primari e che, per sopravvivere, si comportavano in modi uniformi e istintivi. Il tempo qui considerato si divide, dal punto di vista dell'evoluzione geologica, in due periodi, chiamati Pleistocene ed Olocene. Sembra che l'uomo appaia in Europa già all'inizio del primo periodo, caratterizzato da una serie di cicli glaciali ed interglaciali che rendevano instabili e particolarmente ardue le condizioni di vita. Durante tale periodo i ghiacciai scendono dalle montagne del Friuli e depositano sulla pianura gigantesche quantità di materiale, le cosiddette morene; scavano valli profonde fra i monti, costruiscono le colline fra il Tagliamento e il Torre e, ritirandosi, lasciano aperti enormi solchi nei quali oggi scorrono i nostri fiumi. La faccia stupenda del Friuli si forma durante il Pleistocene, ma a prezzo di fenomeni geologici tali che difficilmente possono consentire la vita dell'uomo. Le prime culture umane, chiamate paleolitiche o della pietra scheggiata, appaiono in Europa un milione di anni prima di Cristo. L'uomo paleolitico é nomade, conosce il fuoco, si rifugia nella caverna, sa lavorare l'osso, il legno e soprattutto la pietra, secondo tecniche sempre più perfezionate, ma sempre basate sulla scheggiatura. La civiltà della pietra scheggiata si sviluppa durante tre distinte età, denominate inferiore (da un milione di anni a 250 mila anni prima di Cristo), media (da 250 mila a 40 mila anni a.C.) e superiore (da 40 mila a 10 mila anni a.C.). Tenendo presente il fatto che le schegge più antiche sono state trovate in Friuli in una caverna presso Faedis, chiamata Zondar des Paganis, e che per le caratteristiche della lavorazione sono attribuibili al Paleolitico medio, si può concludere che la nostra regione è abitata, sia pure in modo sporadico agli inizi, da non più di 250 mila anni. Stabilizzatosi finalmente il clima e l'ambiente naturale con l'inizio dell'Olocene, circa 10 mila anni prima di Cristo, le culture litiche subiscono notevoli cambiamenti e, dopo un periodo di transizione detto mesolitico, circa cinquemila anni prima di Cristo si afferma la cultura neolitica o della pietra levigata. Importanti stazioni neolitiche friulane si trovano a San Vito al Tagliamento, nella conca di Palù alle sorgenti del Livenza; a sud-ovest di Palmanova, a Concordia, San Giovanni di Casarsa, Marano, Muzzana, Palazzolo dello Stella, Buia, Tricesimo, ed ancora a Enemonzo. Invillino, Cave del Predil e ai laghi di Fusine. Quelli elencati sono i depositi di materiali litici più consistenti finora segnalati, ma altri, meno importanti, sono numerosi in pianura. Circa duemila anni prima di Cristo, per immigrazione o transito di nuovi popoli culturalmente progrediti, ha inizio anche in Friuli l'età dei metalli. Appaiono dapprima oggetti in rame e, subito dopo, in bronzo, una lega di rame e stagno ottenibile solo con un notevole progresso nella tecnica di lavorazione dei metalli. Si trattò evidentemente di una rivoluzione tecnologica paragonabile a quella determinata dalla scoperta delle materie plastiche, che migliorò di molto la produttività del lavoro umano, permettendo forme di vita associata sempre più evolute. Se qui l'età del bronzo, la metallurgia ebbe, soprattutto, l'effetto di liberare una parte considerevole dell'umanità dai lavori necessari per produrre i beni primari (agricoltura, caccia, pesca, allevamento), consentendo lo sviluppo dell'arte e della vita intellettuale e spirituale. Con l'età dei metalli, suddivisa dagli studiosi in diversi periodi in base all'evolversi ed al mutare di determinati fenomeni artistici o sociali, quali la forma del vasellame o gli usi funerari, inizia la protostoria, cioè il periodo di tempo in cui le culture umane cominciano a differenziarsi e a regionalizzarsi. Nell'Italia settentrionale prende corpo e fisionomia il gruppo etnico degli Euganei; nell'Europa centrale, lungo il Reno emerge il misterioso popolo dei tumuli, ossia i Celti, che a partire dal 1500 a.C. comincia ad espandersi in tutte le direzioni. Gli uomini dell'età dei metalli si stabiliscono in Friuli soprattutto sulle colline moreniche e, nella pianura, lungo le risorgive, cioè nella zona più ricca d'acque e di vegetazione. Ritrovamenti della cultura eneolitica sono segnalati a Portogruaro, Sesto al Reghena, Palazzolo dello Stella, Teor, Gonars, Muscoli, Gorizia; e ancora a Travesio e Sequals, Mereto, Fagagna, Moruzzo, Martignacco, Udine, San Pietro al Natisone, Purgessimo, Azzida, Clodig e, in Carnia, a Enemonzo, Socchieve, Paularo e Imponzo. L'elenco delle località potrebbe essere molto più lungo, ma basta per dare un'idea della distribuzione territoriale degli insediamenti eneolitici. Fra tutti i reperti, rivestono una particolare importanza le asce arcaiche ritrovate a Belgrado di Varmo, tra Torsa e Talmassons, e a Gabrovizza (Savogna), che, essendo databili fra il 2000 e il 1900 a.C., dimostrano la presenza dell'uomo in Friuli fin dalla prima età del bronzo. È con la protostoria, comunque, che la terra che noi oggi chiamiamo Friuli comincia a differenziarsi dalle terre che la circondano, per due fenomeni accertati ma misteriosi: il vuoto della civiltà atestina e la nascita dei castellieri. L'età del ferro comincia mille anni prima di Cristo e nell'Italia settentrionale appare ritmata da tre avvenimenti fondamentali: l'immigrazione dei Paleoveneti, all'inizio del millennio; l'immigrazione dei Celti. cinquecento anni dopo, e, infine, la colonizzazione romana, che inizia a partire dal terzo secolo avanti Cristo. Paleoveneti sono un gruppo indoeuropeo che si stabilisce nell'Italia nord-orientale scacciando i Liguri. Il centro culturale paleoveneto più vivace è quello di Ateste (Este) per cui la loro civiltà viene chiamata atestina. Ebbene, noi oggi osserviamo non senza stupore che tale civiltà "avvolge" il Friuli ma non vi penetra, cosicché la nostra regione si presenta come un vuoto nella civiltà paleoveneta, che risulta presente nel Veneto, in Carinzia, a oriente dell'Isonzo, sul Carso e in Istria! Esiste tutta una serie di iscrizioni venetiche lungo i confini storici del Friuli, ma nessuna traccia rilevante di quella cultura entro i confini di una terra considerata utile più per il transito che per la vita stabile, sicché allora, come scrisse Devoto, è Friuli ciò che non è veneto. (Recenti ricerche archeologiche hanno portato alla luce tracce paleovenete corredi funebri, bronzetti, iscrizioni a San Vito al Tagliamento e a Dernazacco, nei pressi di Cividale). I castellieri sono fortificazioni circondate da un argine di terra, dotato di ingressi. di forma quadrilatera oppure ovale (quello di Savalons, però è semicircolare) situate in pianura, con una superficie che varia da 30.000 a 47.000 metri quadrati. La zona più ricca di tali manufatti si trova a nord di Codroipo, a cavallo del Tagliamento, ed è interessante anche per la presenza di singolari coni di terra, sicuramente di origine artificiale, chiamati tombe o anche tombe a tumulo. La tentazione di attribuire al popolo dei tumuli, i Celti, tali manufatti é ricca di suggestioni, ma secondo il prevalente parere degli studiosi, tanto i castellieri quanto le tombe risalgono all'età del bronzo, non all'età del ferro, e sono stati costruiti da un popolo che, almeno per ora, non ha nome. È comunque interessante notare che i castellieri della pianura friulana si differenziano per le loro caratteristiche sia da quelli del Carso e dell'Istria, sia da quelli del Veneto; c'è perciò chi vi riscontra la prima traccia di una individualità etnico-culturale locale (Menis). Non si può, in ogni caso, dimenticare che le diversità ambientali ebbero una decisiva influenza sulle tecniche di costruzione: in Istria e sul Carso la pietra spigolosa è abbondante e di agevole reperibilità; in Friuli i fiumi trasportano pietre ciottolose e c'è tanta terra da ammucchiare.

Il Friuli alle origini

l Friuli - Venezia Giulia riveste una notevole importanza geologica per la presenza nel suo territorio di una sequenza eterogenea di rocce, spesso molto fossilifere, testimonianza di quasi tutti i Periodi che sottolineano la storia della Terra. La parte settentrionale delle Alpi Carniche è composta, quasi esclusivamente da sedimenti dell'Era Paleozoica (Primaria), i più antichi dei quali sono costituiti da rocce ordoviciane di oltre 450 milioni di anni, depositatesi in un mare poco profondo al quale confluivano da un vicino continente. Nel periodo seguente, il Siluriano, il mare andava approfondendosi e si depositavano calcari ed argilliti con numerose testimonianze fossili. Successivamente, nel Devoniano, sui calcari di mare basso si sviluppavano scogliere coralline: si devono a questo periodo gli imponenti complessi dei Monti Coglians, Pizzo, Rimau, Zermula e Cavallo. Trecento milioni d'anni fa, nel periodo del Paleozoico chiamato Carbonifero, l'Orogenesi Ercinica interessa gran parte dell'Europa ivi compresa l'area Carnica. Enormi compressioni laterali provocano il corrugamento ed il sollevamento dei depositi precedenti e si assiste alla nascita (orogenesi) anche di quella catena montuosa denominata "Paleocarnica". Cessati alfine i movimenti compressivi, la giovane catena subisce gli effetti dell'erosione e si instaurano ambienti fluviali e deltizi con sedimenti a volte molto fossiliferi. Resti vegetali e animali marini vi appaiono frequenti, con particolare accentuazione nella zona di Cason di Lanza e Passo Pramollo. Il Paleozoico, va concludendosi con l'ultimo periodo, il Permiano, caratterizzato, all'inizio, da formazione di altre scogliere coralline (Creta d'Aip) a cui seguono alternandosi, ambienti continentali e di mare basso, con pianure alluvionali e lagune. L'Era Mesozoica (Secondaria), compresa tra i 230 e i 65 milioni di anni fa vede instaurarsi nel Friuli - Venezia Giulia condizioni prevalentemente marine che favoriscono enormi depositi di rocce soprattutto calcaree. Per la varietà dei fenomeni geologici e la ricchezza di fossili si evidenziano le rocce del Periodo Triassico, che sono presenti e largamente diffuse in tutta l'area alpina. Gran parte delle montagne sono poste ai lati dell'Alta Val Tagliamento e della Val Fell ne sono autorevole testimonianza. Più a Sud compaiono sedimenti giurassici (Monte Verzegnis) scarsamente fossiliferi. La parte più meridionale delle Prealpi Carniche e Giulie è infine costituita da rilevanti depositi calcarei del successivo periodo Cretacico.

Antiquarium di Via Donota

L'Antiquarium di via Donota - dipendente dalla Soprintendenza ai Beni Ambientali, Architettonici, Archeologici, Artistici e Storici del Friuli-Venezia Giulia - è costituito da una zona archeologica e da una espositiva, quest'ultima collocata nella torre delle mura medievali, detta di Donota. I reperti esposti provengono dagli scavi effettuati tra il 1980 e il 1986 nella zona retrostante il Teatro romano, lungo la via Donota e le sue adiacenze, nell'ambito di un esteso recupero edilizio condotto dall'Istituto Autonomo Case Popolari di Trieste (PEEP Teatro Romano). Gli scavi hanno portato alla luce a monte del Teatro, fuori dal probabile corso della cinta muraria romana, anche i resti di un'abitazione, costruita su piani diversi sfruttando il declivio della collina.L'edificio era sicuramente abitato nei primi decenni del I sec. d. C. e la presenza di intonaco affrescato e di una decorazione architettonica in stucco, oltre alla ceramica fine da mensa testimoniano un certo livello di vita. Alla metà del I sec. l'abitazione venne abbandonata e poco dopo riutilizzata in modo precario. Alla metà del II sec. sulle strutture abitative completamente sepolte venne inserito un recinto di lastre calcaree di probabile destinazione funeraria. Dal IV al VI sec. l'area venne intensamente riutilizzata con la creazione di tombe a cassa e a fossa e la deposizione in anfore di bambini. Queste tombe riempiono tutto lo spazio e si estendono anche fuori dal recinto. In età medioevale la zona venne occupata dalle mura cittadine.