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Fatti di Storia

Storia dei ponti di Venezia

Venezia sorge su un arcipelago di 118 isolette intersecate da 150 canali e collegate fra loro da più di 400 ponti. Di questi, fino ad oggi, solo 3 collegano le due sponde del Canal Grande, principale via d'acqua e arteria navigabile della città: il Ponte di Rialto, il ponte dell'Accademia e il ponte degli Scalzi. Fino al 1850, il ponte di Rialto è l'unico ad attraversare il Canal Grande, collegando le due parti della città. In origine il ponte era di legno e si apriva per consentire il passaggio delle barche e del Bucintoro. Fu riedificato in pietra nel 1591, su progetto di Antonio Da Ponte, vincitore della lunga gara tra i maggiori architetti del Cinquecento, tra i quali il Palladio. Il ponte, lungo 28 metri e ad una sola arcata ospita tuttora numerosi negozi e bancarelle che vendono souvenir e artigianato veneziano. Nel giro di dieci anni gli austriaci realizzano altri due ponti, uno di fronte alla stazione ferroviaria di Santa Lucia, il ponte degli Scalzi in pietra, ed un ponte provvisorio in legno di fronte alle Gallerie dell'Accademia. Il Ponte degli Scalzi venne ricostruito nel 1932 su progetto dell'ingegnere Eugenio Miozzi (1889-1979). Costituito da una singola arcata interamente in pietra d'Istria, il ponte venne inaugurato nel 1934 e sostituì il precedente ponte in ferro costruito dagli austriaci nel 1858. Il Ponte dell'Accademia, originariamente costruito in ferro nel 1854 e successivamente sostituito nel 1984 da un "ponte provvisorio" realizzato in legno, non venne invece mai sostituito dal progetto definitivo in pietra. Il Ponte di Calatrava, attualmente in fase di montaggio, progettato dal famoso architetto e ingegnere spagnolo Santiago Calatrava, è il quarto ponte che attraverserà il Canal Grande a Venezia, tra Piazzale Roma e la stazione ferroviaria di Santa Lucia, e sarà il 431esimo ponte di Venezia. Il progetto prevede un ponte ad arco, con una campata di 81 metri, largo 6 metri alla base e 9 al centro con un’altezza di 10 metri nel punto più alto. La struttura è in acciaio, i pavimenti e i parapetti sono in vetro e pietra d’Istria, con corrimano in bronzo. Altro ponte celebre a Venezia è il ponte dei Sospiri, che si trova a San Marco, accanto al Palazzo Ducale. Fu costruito all'inizio del Seicento per collegare le vecchie prigioni del palazzo Ducale, quella "dei Piombi" e quella "dei Pozzi", con le nuove prigioni.

Il leone di San Marco, Venezia

Il Leone alato, rappresentazione simbolica dell’evangelista Marco, è il simbolo della città di Venezia e della sua antica Repubblica. Al giorno d’oggi lo si ritrova nei simboli del Comune e della Provincia di Venezia, nonché della Regione Veneto. Lo si può trovare anche nella bandiera navale della Repubblica Italiana e come simbolo del premio della Mostra Internazionale di Arte Cinematografica: il Leone d’Oro. Il leone alato è solitamente accompagnato da un’aureola, una spada e un libro sotto la zampa anteriore destra sulla quale è presente il motto: “Pax tibi Marce, evangelista meus” (Pace a te, Marco, mio evangelista). La frase completa comprenderebbe anche le parole «Hic requiescet corpus tuum» ovvero "qui riposerà il tuo corpo" che, secondo un'antichissima tradizione, un angelo in forma di leone alato avrebbe rivolto al Santo, naufrago nelle lagune, per preannunciargli che un giorno in quelle terre il suo corpo avrebbe trovato riposo e venerazione. Infatti la salma di San Marco fu portata a Venezia da due mercanti veneziani, Buono da Malamocco e Rustico da Torcello, dopo averla trafugata ad Alessandria d’Egitto. La rappresentazione di San Marco in forma di leone alato ha un suo significato nell'iconografia cristiana: il leone simboleggia la forza della parola dell'Evangelista, le ali l'elevazione spirituale, mentre l'aureola è il simbolo cristiano della santità. Moltissime sono le sue differenti raffigurazioni che possiamo ritrovare negli emblemi ufficiali:il leone “rampante”: di profilo, ritto sulle zampe posteriori; il leone “in moeca”: di fronte, seduto, con le ali spiegate a ventaglio, assumendo un aspetto simile a quello di un granchio (in veneziano moeca è il nome dei piccoli granchi in periodo di muta). Questa è la raffigurazione più famosa in quanto è quella che meglio rappresenta lo spirito marinaro della città di Venezia. “In soldo” o “in gazzetta”: seduto con le ali spiegate a ventaglio e nimbato; “vessillifero”: leone rampante che sorregge un vessillo “passante”: di profilo con la zampa anteriore destra appoggiata sopra al libro.Esistono numerose interpretazioni simboliche delle combinazioni di questi elementi: il solo libro aperto è ritenuto simbolo della sovranità dello Stato, il solo libro chiuso è invece ritenuto simbolo della sovranità delegata e quindi delle pubbliche magistrature, il libro aperto e la spada a terra è ritenuto popolarmente simbolo della condizione di pace per la Serenissima mentre il libro chiuso e la spada impugnata è invece popolarmente ritenuto simbolo della condizione di guerra, infine il libro aperto e la spada impugnata sarebbe simbolo della pubblica giustizia. Quando poi, verso il Quattrocento, Venezia iniziò ad interessarsi dei territori della terraferma, si incominciò a raffigurare il leone solo con le zampe posteriori in acqua, mentre quelle anteriori stavano sulla terra. Durante i periodi di dominazione straniera, invece, il leone veniva rappresentato sovrastato dai simboli della nazione dominante: l’aquila napoleonica o l’aquila bicipite imperiale austriaca. Non si hanno notizie certe circa la data di adozione del leone come simbolo della Repubblica: alcuni studiosi ipotizzano che la figura risalga al XII secolo e che sia stato Jacopo da Varazze ad indurre la Serenissima ad adottarlo come simbolo di stato, altri invece affermano che la sua comparsa sia più tarda, verso la metà del XIV secolo. E’ comunque un dato di fatto che il leone, simbolo di maestà e potenza, è sempre stata una figura che ha affascinato i veneziani. Oltre alle innumerevoli rappresentazioni scultoree che possiamo trovare in giro per la città o alle raffigurazioni in stemmi, bandiere o dipinti, a Venezia si potevano trovare anche leoni veri nei giardini dei palazzi. Addirittura nel 1316 una leonessa partorì nel cortile del Palazzo Ducale con grande sorpresa di tutta la popolazione!

Le Saline della laguna Veneta

I primi abitanti della laguna furono i profughi delle città in fuga dai barbari, gente abituata al benessere e alla ricchezza e che improvvisamente si trovava in un ambiente ostile e non coltivabile. L’unica attività che consentiva la sopravvivenza era il commercio e la navigazione con le genti di Dalmazia, Istria e Ravenna, soggette a Bisanzio. Venezia divenne l’incontro tra le richieste dei barbari che offrivano cereali, pollami, metalli lavorati e legnami dalla terra ferma e le altre genti, compresi i Turchi e gli Arabi successivamente nel tempo. Ma per avviare il commercio bisognava poter comprare e quindi avere qualcosa che possedesse valore e scoprirono sotto i loro piedi: il sale. All’inizio a Venezia c’erano saline dovunque. Il sale patrimonio comune veniva raccolto e depositato in grandi magazzini detti i "saloni" e poi esportato lungo le coste dell’Adriatico in cambio di moneta sonante. Importantissime le prime leggi che vennero emanate per sviluppare e regolare il commercio con Venezia. Queste leggi sanciscono uno scambio basato sul baratto, ovvero non si doveva pagare le merci importate in denaro bensì con altre merci, in tal modo si accumulava il denaro dello Stato. I Veneziani cominciarono a costruire all’estero delle filiali, che contrattavano per la sede centrale. Successivamente a Venezia cominciarono a giungere i mercanti stranieri. In tal modo si assumevano i rischi del trasporto. Ecco che sorsero in città i fondachi, ovvero dall’arabo ‘funduqh’ albergho-deposito dove gli stranieri erano obbligati a risiedere per ragioni di controllo.

Arsenale di Venezia, Zona militare dei tempi della Serenissima

Le origini dell'Arsenale risalgono al 1104, quando il Doge Falier istituisce un cantiere navale di Stato, presso Piazza San Marco. Nel XII secolo il cantiere, trasferito presso l'attuale sede, in posizione maggiormente protetta, influenza lo sviluppo urbano della città attorno alle proprie opere murarie ed alle indotte realizzazioni abitative della zona. L'espansione commerciale di Venezia continua senza soste ed alla fine del XIV secolo il Senato, conscio dell'importanza strategica del cantiere ai fini dei fiorenti commerci marittimi, ne decide l'ampliamento. E' il secolo delle guerre con l'altra Repubblica marinara di Genova, che era di poco precedente la più consistente minaccia turca, alla quale l'Arsenale fa fronte aumentando, fino a triplicare, il numero delle navi costruite. Con l'avvento delle grandi navi a vele quadre si rendono necessari lavori di adattamento, tra cui significativi sono gli allargamenti di canali e dello specchio della porta a mare. Dal 1797 si susseguono le occupazioni francesi ed austriache; l'Arsenale, dopo aver subito iniziali devastazioni, registra, da parte austriaca, una ripresa delle attività sino al 1848. A seguito dell'annessione di Venezia al Regno d'Italia, avvenuta nel 1866, la Regia Marina Italiana s'impegna nella ristrutturazione e nella rivitalizzazione dell'intero Arsenale; attenta però a bilanciare le esigenze di ristrutturazione, connesse alle nuove tecnologie, e la volontà di recuperare il complesso storico monumentale. Nel corso della I Guerra Mondiale l'efficienza del rimodernato cantiere contribuisce sia al perseguimento della strategia offensiva italiana, sia al sostegno logistico alle linee difensive, approntando i mezzi per le operazioni navali, aeree e terrestri. L'Arsenale di Venezia è destinato a divenire la sede del polo culturale della Marina Militare. E' già stato costituito a Venezia l'Istituto di Studi Militari Marittimi ed è programmata la realizzazione del Museo Navale italiano. Attualmente, in prossimità dell'Antico Arsenale di Venezia, in Campo S. Biagio, ha la sua sede il Museo Storico Navale di Venezia.

La Seconda Guerra Mondiale in Friuli

La partecipazione dei Friulani alla seconda metà mondiale può essere riassunta - senza retorica - con la citazione di due date e di altrettante decorazioni: il 20 giugno 1942 Vittorio Emanuele III appuntò la medaglia d'oro alla bandiera di combattimento alla Divisione alpina "Julia" che, in terra di Grecia aveva saputo combattere con autentico sacrificio, offrendo se stessa sul crogiuolo di una compagna difficilissima. Il 19 settembre 1949 la presidenza del Consiglio del Ministri assegnò al Friuli, e per esso alla Città di Udine, la medaglia d'oro al valore militare perché: "Fedele alle tradizioni dei padri, anelante a riscattarsi dalla tirannide e a rinascere a libertà, il popolo friulano, dopo l'otto settembre 1943, sorgeva compatto contro l'oppressione tedesca e fascista, sostenendo per 19 mesi una lotta che sa di leggenda (...)". Abbiamo ricordato di proposito due episodi utili per testimoniare due comportamenti che possono apparire opportunistici o incoerenti solo a chi non conosce il popolo friulano e la sua filosofia della sopportazione e del sacrificio. Ma chi ha potuto apprezzare il profondo senso del dovere della nostra gente, abituata da secoli a sopportare guerre e a resistere ad invasioni per conservare se stessa, capisce, o meglio "sente", che non di due comportamenti diversi e opposti si tratta, bensì di una sola tenace coerenza, pagata a caro prezzo. Dal '40 al '43 l'Italia fascista e livellatrice, impegnata a cancellare il regionalismo in nome dell'unità della Patria che non era in discussione e che fu lesa proprio dalle guerre di conquista del regime, trovò nei reparti che possiamo definire "regionali", cioè costituiti prevalentemente da uomini di una stessa regione storica, i punti di forza dell'esercito. La "Julia", la "Tridentina", la "Cuneense", erano divisioni fatte da uomini delle regioni alpine, che si conoscevano fin dall'infanzia e parlavano uno stesso dialetto. A Nicolajewka, il 26 gennaio del '43, si parlava dialetto per riordinare i reparti e tentare l'ultimo disperato sfondamento; e come scrisse Egisto Corradi nel suo La ritirata di Russia, alla vista di sei alpini che formavano ormai un blocco unico con la terra ghiacciata attorno ai resti di un fuoco spento, l'unico che aprì bocca fu un friulano che disse: "Chel can da l'ostie dal Duce!". Fu una parte di questi uomini, citati all'ordine del giorno dell'Armata Rossa per il loro leggendario valore, che, dopo aver compiuto il loro dovere di soldati, salirono con molti altri sui monti della Carnia per compiere il loro dovere di uomini decisi a liberarsi dalle catene della tirannide e dell'occupazione. Furono ancora loro che, nella lontana Val d'Ossola, come in Carnia e a Nimis-Attimis-Faedis crearono le zone libere contro le quali si abbatté l'onda della spaventosa rappresaglia tedesca. La Resistenza assunse una dimensione regionale, nel nostro caso friulana, per tanti motivi geomilitari, ma soprattutto perché friulana era la gran massa dei partigiani. È per questo che gli ideali di pace e di libertà crebbero accanto all'ideale della friulanità negli anni in cui, come scrisse Chino Ermacora, "la Patria era sui monti". La Resistenza ebbe anche il potere, per alcuni mesi, di realizzare una difficile convivenza e un'azione comune fra le due grandi formazioni partigiane operanti in Friuli: la "Garibaldi", di ispirazione comunista, e la "Osoppo", composta prevalentemente da democristiani e da aderenti al Partito d'Azione. Fu una breve primavera unitaria, sacrificata troppo presto al mito dell'ideologia e insanguinata dall'eccidio di Porzus. Accanto al sacrificio dei combattenti non possiamo non ricordare i patimenti dell'intera popolazione del Friuli. Oltre ai lutti provocati dalle operazioni militari e partigiane, e furono migliaia e migliaia di morti, dalla campagna di Francia alla campagna di Grecia, dal Don ad Alamein, dall'affondamento del Galilea all'operazione "Waldlâufer", attuata dai Tedeschi contro la zona libera della Carnia nell'ottobre del '44, non possiamo dimenticare i bombardamenti a tappeto contro le città situate sulle principali vie di comunicazione, come Udine, Latisana, Codroipo, Pordenone, Casarsa, Venzone, i mitragliamenti a bassa quota contro convogli civili, i treni carichi di deportati diretti ai "lager" tedeschi, le torture e le esecuzioni di partigiani o di ostaggi, il razionamento dei viveri e il mercato nero, il lavoro coatto per la "Todt" e le requisizioni. Commovente ed agghiacciante insieme è la rievocazione storica di Michele Gortani intitolata: II martirio della Carnia, una zona povera per sua natura e chiusa dai Tedeschi in un assedio che aveva come scopo finale la resa per fame. E come non ricordare le donne di Erto, Casso, Cimolais, Claut che scendevano alla Bassa a barattare castagne per granoturco o a vendere pochi oggetti in legno di un povero artigianato? Come dimenticare l'incendio di Barcis, di Nimis e di altri paesi, la devastazione di Forni di Sotto e di cento altre borgate, decisa dagli occupanti per rappresaglia? Come dimenticare l'invasione cosacca, gli stupri, le ruberie, il terrore, le vendette personali e tutto l'orrore che una guerra sa scatenare? Come dimenticare il sinistro significato che aveva in quel tempo terribile il nome della serena cittadina di Dachau? A conclusione del capitolo, dopo aver considerato il costo umano della guerra ci pare opportuno esaminare il suo costo economico, sopportato dal Friuli sotto forma di danni. Senza scendere in particolari diremo che il settore più danneggiato fu quello industriale, che subì un danno complessivo misurabile in 1,5 miliardi di lire di quel tempo. Il settore commerciale sopportò danni per mezzo miliardo di lire, il settore artigianale per poco più di cento milioni. A questi dati, ricavati in base alla statistica delle denunce, per danni di guerra e per concessioni di contributi, vanno aggiunti i danni veramente ingenti alle vie di comunicazione e quelli relativi alla distruzione di 51.000 vani. Il quotidiano Libertà del 9 ottobre 1946 scrive: "Il tributo di Udine alla guerra é stato di quasi 3.000 abitazioni distrutte e ora su ottantacinquemila abitanti almeno trentacinquemila sono senza casa". Un conto pesantissimo, senza dubbio, e tuttavia meno grave, per il sistema economico nel suo complesso, di quello che si ottenne sommando il valore dei danni patiti nel 1918. Scrive Parmeggiani: "La seconda guerra mondiale produsse sicuramente nel tessuto industriale friulano minori guasti della precedente che ebbe, rispetto a questa, un minor effetto paralizzante sulla crescita del settore". Egli giustifica la sua affermazione sulla base delle seguenti considerazioni: a) il Friuli non fu campo di battaglia nel senso in cui lo fu durante la prima guerra mondiale; b) i Tedeschi, anziché asportate le attrezzature industriali friulane, come nel 1917-18, le utilizzarono in loco per i loro scopi bellici; c) i bombardamenti angloamericani furono prevalentemente concentrati sulle vie di comunicazione; d) la ritirata degli occupanti fu precipitosa; non ebbero quindi il tempo di predisporre e soprattutto di attuare piani organici di distruzione, anche perché l'azione svolta dai Comitati di Liberazione attraverso le truppe partigiane, valse a preservare dai danni della ritirata gran parte degli stabilimenti industriali e, in particolare, gli impianti idroelettrici.

La Prima Guerra Mondiale in Friuli

Non è questa la sede adatta per studiare la prima guerra mondiale sotto il profilo politico e militare, anche perché il Friuli non ebbe voce in capitolo se non come vittima di una guerra decisa da altri per interessi che gli erano estranei e contrari. Contrari, vogliamo dire, al popolo, non certo a pochi interventisti immigrati dal Friuli orientale o da Trieste, che avevano in Udine la loro base operativa, nel Giornale di Udine, diretto da dalmata Isidoro Furlani, il loro portavoce e fra i borghesi di città i loro simpatizzanti. Estranei agli interessi di un popolo che aveva solo bisogno di posti di lavoro, non di "spallate" sull'Isonzo, e che seppe pagare "per Trento e Trieste" un tributo di sangue e di danni morali e materiali che trova forse riscontro solo in qualche regione francese, non certo in altre regioni italiane. In questa storia friulana vista dall'interno, dobbiamo rispondere solo alla seguente domanda: quale fu il prezzo pagato dai Friulani per partecipare alla prima guerra mondiale? La grande guerra cominciò indirettamente per il popolo friulano nell'agosto del 1914, quando ottantamila emigranti furono costretti a rientrare dalla Germania, dall'Austria e dall'Ungheria con mesi di anticipo rispetto al ciclo normale di lavoro. Ciò significò, in pratica, che molte famiglie si trovarono a dover sfamare una bocca in più, con un reddito più basso delle annate precedenti e in un periodo di prezzi crescenti. La situazione era già pesante nella tarda estate del 1914, sicché l'Ufficio Provinciale del Lavoro di Udine propose al Governo di accelerare l'esecuzione dei lavori pubblici già progettati nei vari comuni del Friuli ma non ottenne grandi risultati. Nel febbraio del 1915, secondo i dati di una meticolosa indagine eseguita dal citato Ufficio, c'erano in Friuli 83.575 emigranti, dei quali 57.191 disoccupati. A giudizio dei rilevatori la situazione era "grave" nei collegi elettorali di Pordenone, Spilimbergo, Tolmezzo, Gemona-Tarcento e San Daniele; "difficile" nel collegio di Udine. (Da La Patria del Friuli del 2 maggio 1915). La Cassa Depositi e Prestiti concesse mutui sufficienti per finanziare poco più della metà dei lavoro pubblici progettati, che erano già di per sé insufficienti per dar lavoro a tutti i disoccupati. Evidentemente il governo non aveva intenzione di impegnarsi a fondo in costruzioni che dovevano sorgere proprio su uno dei più sanguinosi campi di battaglia dell'immane conflitto. A nulla valsero i comizi socialisti, le manifestazioni di piazza, le petizioni: la guerra si avvicinava ormai a grandi passi e avrebbe dato un fucile in mano a tutti i disoccupati. A partire dal 24 maggio 1915 l'Esercito italiano raggiunse rapidamente la tragica linea della guerra di posizione sulle Alpi Carniche e Giulie e lungo l'Isonzo. Nel frattempo venivano deportati molti preti del Friuli orientale in base alla semplice presunzione che sarebbero potuti essere "austriacanti", e sulla piazza di Villesse vennero fucilati alcuni civili sospettati di sabotaggio. In Carnia furono "sgomberati" interi paesi per zelo poliziesco del tutto ingiustificato. Su questa linea fino all'ottobre del '17, e sul Piave fino al 4 novembre 1918, i Friulani seppero bere fino in fondo l'amarissimo calice del sacrificio. Il battaglione Val Natisone fu l'unico a non avere disertori e in Carnia duecento donne, molte delle quali erano ancora adolescenti, portarono a mano o sul dorso migliaia e migliaia di pesantissimi proiettili in prima linea. A guerra finita rimarranno quattordicimila orfani a testimoniare, accanto a migliaia di feriti e mutilati, il tributo dei Friulani a quella che Benedetto XV definì "inutile strage" (Rimarrà anche il record assoluto e relativo delle medaglie d'oro e delle altre decorazioni). Bisognerebbe ancora dire che il numero degli orfani di guerra della provincia di Udine può essere scomposto come segue: - figli orfani di contadini 6.903 - figli orfani di operai 6.025 - figli orfani di industriali e commercianti 182 - figli orfani di professionisti 262 (Dati ricavati da una comunicazione del Prefetto di Udine al ministero dell'interno, pubblicati da Il Lavoratore Friulano del 20 febbraio 1921). Giovanni della Porta scrive che, fra il 24 maggio 1915 e il 27 ottobre 1917, la Città di Udine subì 68 incursioni aeree e sette bombardamenti. Le bombe caddero il 20 agosto e il 19 novembre 1915; il 19 gennaio, il 16 maggio e il 29 giugno 1916; il 31 maggio e il 25 ottobre 1917 (Archivio di Stato di Udine, busta 11). Ma la guerra, per quanto sanguinosa e lunga, non avrebbe avuto il potere di distruggere il sistema economico regionale, se non ci fosse stata la ritirata di Caporetto, la fuga di 134.816 persone e l'invasione del Friuli ad opera di un esercito letteralmente affamato e assetato di bottino. I profughi attribuirono alla fuga il valore di prova della loro superiore "italianità" ed accusarono i rimasti di collaborazione con il nemico, ritenendoli anche responsabili di furti commessi in realtà dagli invasori. È vero, invece, che non pochi profughi fuggirono per paura del nemico, dipinto come crudelissimo dalla stampa, perché incoraggiati alla fuga dalle autorità militari italiane oppure per spirito di gregge. Ed è altrettanto vero che i rimasti seppero difendere il difendibile e porre un argine alla fame austro-tedesca anche a vantaggio dei profughi. Il danno maggiore non fu tuttavia demografico e psicologico: fu economico. La grande guerra ebbe l'effetto di distruggere (letteralmente) il sistema economico friulano, determinando un insanabile ritardo della nostra regione nei confronti di altre regioni settentrionali, le cui industrie avevano tratto enorme profitto proprio dalle commesse militari e dall'economia bellica. In un libro intitolato: L 'industria nella Provincia di Udine, pubblicato dall'editore Giuffré per una collana diretta dal prof. Francesco Vito, si legge: "...il valore delle industrie friulane alla fine del 1918 é stimato pari al 14.3% del valore di quelle esistenti alla fine del 1917". Secondo il Tessitori, autore di uno splendido saggio intitolato: "II Friuli alla fine della guerra 1915-18", pubblicato su "Memorie storiche forogiuliesi 1967-68", "le distruzioni furono tali da riportare il settore industriale ad un livello di capacita produttiva inferiore a quello di trenta anni prima e da costringere a ricominciare tutto da capo, vale a dire dalla creazione dei presupposti primari per una ripresa industriale". Il Parmeggiani, fine, nella pubblicazione più volte citata, scrive: "Quando infatti nel 1927 si poté fare finalmente il punto sulla nostra situazione industriale complessiva, si constatò che, praticamente, non s'era arrivati molto al di sopra del livello già raggiunto nel periodo antebellico". Non sono naturalmente compresi nel conto i danni subiti dalle case private, dagli edifici pubblici, dalle strade e dalle ferrovie, ma anche tali beni subirono danni spaventosi. Gaetano Salvemini, nel suo Le origini del Fascismo in Italia, scrive: "Le zone adiacenti al vecchio confine austro-ungarico, che erano state il teatro delle operazioni militari, erano in uno stato di rovina: 163.000 case di abitazione, 435 municipi, 255 ospedali, 1156 edifici scolastici, 1000 chiese, 1222 cimiteri erano stati distrutti o danneggiati; 80 imprese di bonifica agraria interessanti un'area di 120.000 ettari erano andate in rovina; 350 chilometri di strade erano fuori uso...". Questi dati si riferiscono a tutte le zone adiacenti al vecchio confine, e quindi anche al Trentino, al Cadore e a una piccola parte del Veneto, ma é certo che per la metà circa riguardavano il Friuli. L'agricoltura, infine, aveva perso quasi tutto il bestiame, molte infrastrutture, un anno intero di raccolti. Complessivamente, secondo i dati stimati dall'ispettore agricolo provinciale di Udine, pubblicati dal Giornale di Udine del 2 giugno 1918, l'agricoltura delle zone invase aveva subìto danni per un miliardo di lire dell'epoca. Il Friuli, essendo la zona più estesamente coltivata fra quelle invase, subì non meno della metà del danno complessivo. A. BATTISTELLA, Il Comune di Udine durante l'anno dell'occupazione nemica, Udine 1927. G. DEL BIANCO, La guerra e il Friuli, vol. 3, Udine 1952. C. HORVATH-MAYERHOFER, L'Amministrazione militare austro-ungarica dall'ottobre 1917 al novembre 1918, (traduzione di una tesi di laurea dell'Università di Vienna), a cura di Arturo Toso, Udine 1985. G. PIETRA, Gli esodi in Italia durante la guerra mondiale, Roma 1939.

L'emigrazione friulana

In pochi altri periodi della storia del Friuli furono realizzate tante opere pubbliche e avviate tante iniziative private come nei venticinque anni successivi all'annessione all'Italia avvenuta nel 1866; eppure mai come in quegli anni l'emigrazione fu tanto intensa. Procediamo con ordine. Il governo italiano inviò in Friuli Quintino Sella, un uomo di superiori risorse intellettuali, che capi i Friulani e fu capito. Sicuramente la sua simpatia per il Friuli fu un fatto duraturo e positivo. Il 12 settembre 1866, quando la pace con l'Austria non era stata ancora conclusa e il plebiscito del 2 ottobre era ancora incerto e lontano, veniva creato l'Istituto Tecnico di Udine, destinato a svolgere un ruolo determinante per la formazione dei quadri tecnici dei quali il Friuli I era sprovvisto. L'anno successivo entrò in funzione la Scuola Normale I femminile, dove le alunne imparavano anche nozioni di agraria e di bachicoltura. Altre scuole importanti come l'Uccellis, sorgevano negli anni successivi. Nel '66 nacque anche la Società operaia di mutuo soccorso di Udine, che aveva promosso una scuola serale e domenicale di arti e mestieri. L'associazionismo si diffuse a macchia d'olio e cosi pure il cooperativismo economico. La circolazione delle idee era largamente permessa e favorita dalla tiratura di numerosi giornali. Imponente fu la realizzazione di linee ferroviarie, a partire dalla Udine-Pontebba, iniziata nel 1873 e terminata nel 1879. Seguirono la Udine-Cividale nel 1886, la Udine-Palmanova-Latisana-Portogruaro 1888, la Mestre-Portogruaro-Casarsa nell'anno successivo, la Gemona-Spilimbergo-Casarsa nel 1890. Se a queste si aggiunge la Mestre-Trieste, costruita prima del 1866, si può ben dire che il Friuli fu di una rete ferroviaria fitta ed efficiente. Nacquero anche le banche. Negli ultimi mesi del '66 furono aperte succursali di banche italiane, poi presero avvio imprese bancarie locali: nel 1873 la Banca di Udine, nel '76 la Cassa di Risparmio di Udine, nell'85 la Banca Cooperativa Udinese. La Banca del Friuli è dell'83, la Banca Carnica del '90. In provincia funzionavano, in quell'anno trentotto casse di risparmio postale e ben tredici cooperative di credito o banche popolari. Queste ultime erano ubicate a Udine, Latisana, Cividale, Codroipo, Sant'Andrat del Judrio, Buttrio, Casarsa e San Giovanni di Casarsa. Fra il '78 e l'81 furono completati i lavori principali del canale Ledra-Tagliamento, un'opera che, come scrisse Tessitori, basta per dare un giudizio positivo della classe politica che l'ha voluta e realizzata. In linguaggio moderno si può dire che il Friuli fu dotato di tutte le infrastrutture indispensabili per tentare il "decollo" economico. Ma non basta. Con legge 19 aprile 1870, lo stato italiano decise l'abolizione di "tutti i vincoli feudali che ancora sussistono nelle province della Venezia e di Mantova aggregate al regno d'Italia" (così sta scritto nel titolo della legge), togliendo finalmente alla nostra agricoltura tutte le remore in precedenza esaminate. La morte del feudalesimo e l'eliminazione dell'usura che, in mancanza di banche, strozzava i nostri contadini, avrebbero dovuto migliorare le condizioni degli addetti al settore agricolo, nel quale si sarebbe dovuto formare il risparmio necessario per avviare imprese industriali. Queste ultime potevano giovarsi delle ferrovie, delle banche, delle scuole che formavano i tecnici e, soprattutto, della presenza di una manodopera esuberante, ma intelligente e attiva, per una espansione produttiva necessaria per dare al Friuli un livello di vita aggiornato. Tutto questo poteva accadere, ma non accadde, se non in minima parte. Perché? Perché i Friulani emigrarono in massa proprio in quegli anni? Perché molti emigranti abbandonarono il Friuli definitivamente e non tornarono più? Perché partirono persino nobili e bambini? Dipendeva questo dal mal governo, da imprevidenza politica o da nodi antichi che vennero improvvisamente al pettine? Cerchiamo innanzitutto di farci un'idea qualitativa e quantitativa dell'emigrazione dei Friulani. L'emigrazione temporanea o pendolare dal Friuli e dalla Carnia risale certamente ai primi anni della dominazione veneta. Sappiamo che si trattava di una emigrazione di artigiani, molto abili nell'arte della tessitura e del terrazzo, i quali andavano in Austria, a Venezia, a Trieste a mettere a profitto la loro arte durante le stagioni morte per l'attività agricola. Abbiamo anche visto che parte di questi emigranti poté trovare lavoro in Friuli durante il '700 e l'800 grazie a coraggiosi tentativi di industrializzazione. Ma a partire dal 1840 si diffusero la peronospora, l'oidium e la fillossera, tre malattie che fecero strage di patate e viti. La produzione del vino in Provincia di Udine, che era stata di 167.565 ettolitri nel 1841, scese a 10.955 nel 1860. E a partire dal 1858 la principale industria friulana, quella della seta, subì una grave crisi, causata principalmente da un cambiamento nella moda e da una malattia che colpi i bachi. Gli industriali, per la verità seppero resistere durante gli anni delle vacche magre aggiornando tecnologicamente i loro impianti e aprendo addirittura nuove filande, cioè cercando di dare lavoro alla gente aumentando il numero delle fasi di lavorazione eseguite in Friuli. Non riuscivano però a lavorare a pieno ritmo per mancanza di mano d'opera! Perché dunque rifiutavano i Friulani il lavoro in Patria? In realtà non lo rifiutavano. La crisi dell'industria serica era stata una gravissima sciagura economica soprattutto per i contadini, e tale sciagura ebbe inizio a partire dal 1858, quando l'agricoltura era ancora sotto il giogo feudale. La perdita di gran parte del reddito ottenibile allevando i bachi, ridusse moltissimi contadini all'indigenza e li costrinse ad emigrare. Se consideriamo poi che la crisi duri, un decennio, e che l'Europa offriva grandi possibilità di lavoro principalmente nel settore dell'edilizia, mentre l'America meridionale offriva buone possibilità anche nel settore agricolo, possiamo ben comprendere perché i Friulani furono costretti ad imparare in fretta nuovi lavori e ad allungare le distanze per guadagnarsi un pezzo di pane. L'Italia, quindi, arrivò tardi con il suo liberalismo, le sue scuole, le sue banche, e le sue ferrovie. L'Italia chiuse la porta della stalla quando i buoi erano già scappati; fece però in tempo ad imporre un dazio sull'esportazione della seta, che aggravò la posizione degli industriali. L'Italia introdusse anche la famigerata imposta sul macinato, che colpì soprattutto i contadini, e provocò alcuni tumulti. L'imposta sul sale e sui tabacchi, infine, diede grande impulso al contrabbando e spinse i contadini a consumare il sale destinato al bestiame, con grave danno per la loro salute. La crisi della seta, che fece scemare il 70% circa del reddito prodotto dal settore negli anni di massima espansione, e la errata politica fiscale italiana non furono tuttavia le uniche cause del grande esodo. Gli studiosi del fenomeno migratorio sono concordi nell'individuare anche potenti molle psicologiche che trovarono un fertile terreno nell'individualismo autolesionista dei Friulani. Fu spinta al massimo, anche, in quegli anni la propaganda migratoria, ad opera delle compagnie di navigazione e di individui che avevano tutto l'interesse a far lavorare a cottimo squadre di operai friulani. Va tenuto anche nella debita considerazione il calo dei prezzi dei prodotti agricoli, che resero disperata e insanabile la situazione debitoria di tanti piccoli proprietari, che intravidero la salvezza solo oltre l'Atlantico. E l'esodo fu così massiccio che da conseguenza divenne causa del sottosviluppo economico del Friuli. Partirono a frotte, a ondate imponenti. Assenze del 30 e del 40% della popolazione di un comune furono la norma di quegli anni. Non : pochi vendettero tutto e partirono definitivamente. Cominciò allora l'emigrazione per la colonizzazione della Repubblica Argentina. Resistencia, la capitale del Chaco, fu fondata da Friulani giunti nel 1878. Colonia Caroya fu fondata da 180 famiglie friulane, delle quali centoventi provenivano da Gemona. Ausonia, l'attuale Avellaneda, fu fondata da 130 famiglie friulane con conquistarono il territorio dopo una lotta contro gli Indios. Soffrivano, naturalmente, di nostalgia, di oftalmia, di febbre gialla, ma continuavano a partire, anche perché il governo italiano nulla faceva per trattenerli: permetteva la propaganda migratoria, perché vedeva nell'emigrazione la "valvola di sicurezza" dell'economia di un paese sovrappopolato e perché cominciava a trovare comodo, per il riequilibrio della bilancia dei pagamenti internazionali, il risparmio degli emigranti, le cosiddette rimesse. L'Italia doveva importare ferro, carbone, materie prime, ed esportava lavoro umano! Se l'emigrazione definitiva era un fiume, quella stagionale era un mare. Con i maschi, a far la stagione in Austria, in Germania, e persino in Russia (all'epoca dei lavori della Transiberiana), partivano anche molte donne e numerosi bambini. Il lavoro infantile friulano, divenne cosi, anche più disagiato e crudele del solito. Si calcola che i bambini emigranti stagionali fossero in numero pari al 10-13% del totale degli espatriati, che superarono, anche negli anni del miracolo giolittiano, il 10% della popolazione del Friuli italiano. Fra il 1885 ed il 1914 emigrarono definitivamente 92.419 Friulani (dato vicinissimo al reale secondo il Parmeggiani). Pii difficile, invece, per tanti motivi, é la valutazione dell'emigrazione temporanea o stagionale, ma un dato è certo ed impressionante. In base al censimento demografico del 1911 risultano temporaneamente assenti 91.655 cittadini della provincia di Udine, che comprendeva allora anche il territorio della provincia di Pordenone, su un totale di 628.081 abitanti. Per lo stesso anno la statistica ufficiale fornisce un dato di 36.494 emigranti temporanei. Sarebbe errato credere che il Friuli fosse una landa deserta di industrie. Accanto alle fabbriche che si dedicavano alle varie fasi della lavorazione della seta e dei cascami, nelle quali lavoravano circa 6.000 addetti, a maggioranza femmine, cotonifici, concerie, fabbriche di ceramiche, stabilimenti per la lavorazione del legno, industrie alimentari, e di altro genere coesistono in un sistema economico basato principalmente su un settore agricolo arretrato, che trova un equilibrio fra popolazione e risorse grazie all'emigrazione e che non riesce a decollare neanche negli anni del decollo dell'economia italiana, fra il 1900 ed il 1914. G. DI CAPORIACCO, L'emigrazione dalla Carnia e dal Friuli, Udine 1983.

La Guerra di Gradisca

Il 7 ottobre 1593 fu fondata la fortezza di Palma, l'attuale Palmanova, eretta dal governo veneto a difesa del confine orientale. Il pericolo dei Turchi era, infatti, tutt'altro che lontano e sempre presente era il pericolo di incursioni ad opera degli Uscocchi, pirati del Quarnaro. Il governo austriaco protestò vivacemente per l'erezione della nuova fortificazione, temendo che Venezia potesse servirsene per occupare la contea di Gorizia, ma non poté impedirne la costruzione. Gli Austriaci non avevano sbagliato pronostico, perché proprio dalla fortezza di Palma, per prevenire nuove incursioni degli Uscocchi, che avevano messo a ferro e a fuoco il territorio di Monfalcone sul finire del 1615, Venezia prese le mosse per occupare i territori arciducali situati sulla destra dell'Isonzo. Gli Uscocchi furono, naturalmente, un utile pretesto per l'inizio di una guerra lungamente premeditata dai Veneziani, che volevano principalmente riprendere Gradisca, situata in posizione chiave per una strategia difensiva. E il 24 febbraio 1616 il generale Pompeo Giustiniano strinse in una morsa la città. A fianco dei Veneziani erano ottime truppe friulane, condotte da Carlo di Strassoldo, Daniele Antonini, Urbano di Savorgnano, Valterpoldo di Spilimbergo ed Antonio di Manzano. Il 5 marzo la fortezza fu duramente bombardata, ma il generale veneziano non vide buone possibilità di riuscita per un assalto. Il 10 morì Daniele Antonini, celebre astronomo e matematico. Il 29 il Senato veneziano, impressionato per le perdite subite dagli attaccanti - si calcola che non meno di quattromila soldati siano rimasti sul campo - ordinava di togliere l'assedio. La guerra proseguì sanguinosa, accanita e spezzettata da azioni tattiche spesso occasionali e slegate fra loro, per mesi e mesi. L'esercito veneziano aveva subito perdite impressionanti, al punto che furono arruolati mercenari svizzeri e olandesi. Furono anche cambiati i comandanti. Nel giugno 1617 caddero sul campo Antonio di Manzano ed il comandante degli Austriaci. Fu posto quindi nuovamente il blocco di Gradisca, difesa da valorose truppe agli ordini di Rizzardo di Strassoldo. La fortezza resistette a pesanti bombardamenti e a numerosi assalti pur essendo a corto di acqua e di viveri. In novembre i Veneti erano ormai pronti per la spallata finale quando il giorno 6 sopravvenne un armistizio che ricostruiva la situazione preesistente con meticolosa precisione. L'arciduca restituì i territori occupati durante le operazioni belliche e altrettanto fece Venezia, che perse così l'ultima occasione per riavere Gradisca. A. BATTISTELLA, Giornale della guerra di Gradisca, "Archivio Veneto", VI (1929). F. DI MANZANO, Annali del Friuli, vol. VI e VII.

Il 1420 in Friuli

Il frammentarismo feudale e comunale è ormai in piena crisi, e già si notano, sulla ribalta della storia, nuovi fermenti che finiranno per determinare la nascita degli stati nazionali in Europa e degli stati regionali in Italia. In realtà il Friuli è uno stato regionale avanti lettera, ma è anche un frutto fuori tempo, con una struttura interna arretrata rispetto ai nuovi stati e con una posizione geografica che non permette la sopravvivenza di organismi sclerotizzati. Il feudalesimo friulano, attenuato dall'autorità centrale del principe nel secolo XII e seguenti, è ancora abbastanza forte nel secolo XV, perché il principe non fu mai un signore o un tiranno capace di accentrare gran parte del potere. Quello friulano ha più L'aspetto di uno stato federale che di uno stato unitario, amalgamato a stento da una solidarietà che ha per molla L'interesse economico. Venendo a mancare tale solidarietà riemerge in ritardo il particolarismo dei feudatari e dei principali comuni, causa prima dell'indebolimento del Friuli, che non riesce a reggere all'urto di stati compatti e centralizzati come la Repubblica Veneta. Queste sono in sintesi le cause generali della fine dello stato patriarcale, che giunge inevitabile dopo quarant'anni di agonia segnata da faide, delitti, lotte insensate e suicide. La causa prima della crisi risolutiva è il dissidio che scoppia fra Udine e Cividale per questioni di interesse commerciale, legate a motivi di prestigio cittadino e familiare. Cento o duecento anni prima il patriarca avrebbe avuto la forza ed il prestigio per castigare i litiganti; ma ormai i tempi sono cambiati ed il malaccorto Filippo d'Alençon si schiera con i Cividalesi, suscitando la rabbiosa reazione degli Udinesi che lo costringono alla fuga. Rientra scortato da un esercito assoldato da Francesco di Carrara, ma poi, giudicando troppo intricata la questione ed ingovernabile lo stato, dà le dimissioni. Nel frattempo le casse patriarcali si sono vuotate ed il bilancio statale è una drammatica radiografia di un ente che si dissolve. La successione di Filippo è davvero problematica, anche perché la lotta fra Udine e Cividale ha ormai stuzzicato l'appetito degli avvoltoi, assumendo proporzioni internazionali. Con Cividale si sono schierati infatti il patriarca, molti comuni friulani, il re d'Ungheria, Padova e i Carraresi; con Udine e con i potenti Savorgnan si schiera Venezia, affamata di retroterra. Il 15 febbraio 1389 la crisi precipita per l'assassinio di Federico Savorgnan, che apre una serie interminabile di crudeli vendette. Il 13 ottobre 1394 il patriarca Giovanni di Moravia, che secondo alcuni è responsabile del primo delitto, cade sulla soglia del castello di Udine sotto i pugnali di un gruppo di congiurati, fra i quali c'è Tristano Savorgnan, figlio maggiore di Federico.Un senso di orrore percorre l'intero Friuli. Il Parlamento e le comunità implorano dal papa la nomina di un patriarca capace di riappacificare gli animi. Arriva così Antonio Caetano, che governa con saggezza fino al 1402. Ma la lotta si riaccende quando il successore, Antonio Panciera di Portogruaro, si dimostra favorevole ai Savorgnan e a Venezia. La matassa si aggroviglia ulteriormente anche per una crisi religiosa che porta ad una sentenza papale di deposizione contro il patriarca friulano. Nel 1412 arriva Ludovico di Teck a governare la preda contesa fra gli imperiali e Venezia. Il re Sigismondo di Ungheria, riconosciuto imperatore da tutti i principi tedeschi, compie la prima mossa occupando Udine, mettendo in fuga Tristano Savorgnan, e concludendo poi una tregua quinquennale con i Veneziani. Il Friuli sembra sottratto alle fauci del leone veneto, ma il governo della Repubblica decide di riprendere le ostilità allo scadere della tregua. I Friulani tentano ogni mezzo per venire a patti con i Veneziani, ma questi marciano risoluti agli ordini di Filippo d'Arcelli e di Taddeo d'Este. La resistenza che incontrano è tenace ed orgogliosa, tanto che i due generali decidono di fare "terra bruciata" di vaste zone. Scoppia allora una guerriglia disperata, densa di episodi di efferata violenza, narrati con crudezza di particolari dal cronista veneto Sanudo. Cividale si arrende agli invasori il 13 luglio 1419. Il patriarca tenta di rioccuparla in novembre con un esercito di Friulani rinforzato da seimila Ungheresi, ma invano. Ripara quindi a Udine, che aveva resistito agli assalti dei Veneziani e di Tristano Savorgnan. Nel frattempo, dopo una lunga ed accanita resistenza (rimane negli annali quella disperata di Prata), molti castelli isolati si arrendono. Agli inizi del 1420 il patriarca va in Germania per raccogliere le forze necessarie per tentare la liberazione del Friuli. Nei mesi successivi capitolano Sesto, Spilimbergo, Maniago. In giugno Udine, accerchiata e ormai sicura di non poter più ricevere aiuti dal patriarca, decide di arrendersi il giorno sette. Dopo Udine cadono Gemona, Venzone, Tolmezzo e altri centri. Il Friuli goriziano rimane ancora in mano al conte, che aveva lealmente difeso la Patria - una volta tanto - finendo anche prigioniero dei Veneziani durante l'assedio di Cividale nel 1419. Due anni più tardi, però, egli si riconoscerà vassallo della Repubblica Veneta. Il patriarca Ludovico non si rassegnò alla perdita del suo principato, ma i suoi sforzi diplomatici e militari, le pressioni del papa, la scomunica lanciata contro il doge e i magistrati veneti dal Concilio di Basilea nel 1435, non poterono cambiare una situazione voluta da Venezia per assicurarsi un sufficiente retroterra. Dopo lunghe, estenuanti trattative il successore Ludovico Trevisan accettò, nel 1445, il concordato imposto da Venezia e cosi terminava, anche sotto il profilo giuridico, l'indipendenza dello stato friulano. Rimanevano sotto il dominio dei patriarchi solo le terre di Aquileia, San Daniele e San Vito al Tagliamento, tre "isole" in un lago politicamente veneziano.

Il Parlamento e i Comuni in Friuli

Il Friuli poté godere, sotto il dominio dei patriarchi, di lunghi periodi di pace. Non mancarono per la verità le guerre, interne contro conti di Gorizia ed esterne contro i Trevigiani e Venezia, ma ebbero il pregio di non trascinarsi a lungo. La pace ebbe anche carattere di stabilità, perché impostata su una linea di politica estera ben meditata e collaudata; una linea che sfruttava in pieno la funzione del Friuli come porta fra l'Italia e la Germania. Una porta principalmente militare, ma agibile, durante i periodi di pace, anche per l'esercizio dell'attività commerciale. I patriarchi, d'altra parte, per questioni di prestigio e di pura convenienza, furono sempre solerti nel favorire, con privilegi ed esenzioni mercati cittadini che attiravano in Friuli banchieri e mercanti da tutta Italia. Le sedi dei mercati permanenti e delle fiere stagionali, in Friuli come altrove, furono luoghi di immunità patrimoniale per i padroni e i creditori, dove liberi e servi erano uguali e le liti venivano decise con procedure speciali e rapide. E' in questo contesto che nascono e si sviluppano in Friuli due istituzioni parlamentari, i Comuni e il Parlamento della Patria, che ritroviamo anche in altre regioni, ma che assumono qui caratteristiche originali. Facendo opportuni confronti si può dire che il Friuli ebbe un Parlamento più forte e dei Comuni più deboli di quelli sorti altrove in Italia ed in Europa. I Parlamenti sorsero in tutte quelle regioni in cui il frammentarismo del feudalesimo fu arginato dal forte potere centrale di un principe. Oltre che in Friuli il Parlamento sorse in Sicilia, nelle Marche, in Piemonte e in altre regioni tedesche e francesi. I principi cominciarono a convocare assemblee di vassalli per concordare con questi i tributi in denaro e i contingenti di milizie da fornire all'esercito dello stato. I convocati finirono tuttavia per considerare la consultazione come un loro diritto consuetudinario, che fu ufficialmente riconosciuto da Federico II alla dieta di Worms nel 1232. Il Parlamento della Patria del Friuli ha, però, poteri più ampi degli altri Parlamenti europei, perché "è in pari tempo il maggiore tribunale di appello e l'assemblea legislativa, vi si tratta la pace e la guerra ed un po' alla volta diviene anche supremo tribunale amministratibo " (Leicht). Le riunioni plenarie erano notevolmente affollate, in quanto numerosi erano i membri di ogni braccio parlamentare. Seguendo l'elenco del Leicht diremo che in parlamento sedevano, per gli ecclesiastici, il Vescovo di Concordia, i Capitoli di Cividale e Aquileia, gli Abati di Rosazzo, Sesto, Moggio e della Beligna, ed preposti di S. Stefano, di S. Felice di Aquileia, di S. Pietro di Carnia e di S. Odorico al Tagliamento, sostituito, dopo il 1300, dal Capitolo di Udine. Nei primi tempi intervennero anche il Vescovo di Trieste e l'Abate di Summaga. C'erano poi i nobili, distinti in liberi (investiti dall'imperatore)e ministeriali (vassalli del patriarca). C'è anche la categoria ibrida degli habitatores, cioè dei nobili titolari di feudi d'abitanza, "i quali - scrive il Leicht - in parte si risolvono in veri comuni che poi entrano nel novero delle comunità parlamentari, come Aviano, S. Vito, Meduna, Tricesimo, S. Daniele, Fagagna e Tolmino, in parte rientrano nella categoria dei ministeriali come per esempio Attems e Soffumbergo". Fino al 1309 sono rappresentate in parlamento soltanto le Città di Aquileia, Cividale, Udine, Gemona, Sacile e Tolmezzo; a queste si aggiunsero Portogruaro e Marano nel periodo 1309-1331, Monfalcone nel 1329, Venzone nel 1336. Fra i nobili é degno di nota l'avvocato della Chiesa Aquileiese, incaricato di sostituire il Patriarca di Aquileia in tutte le mansioni incompatibili con la sua posizione di vescovo. Data la consistenza numerica dell'assemblea, è naturale che le sedute plenarie fossero non troppo frequenti e riservate alle questioni più importanti, mentre gli affari correnti erano sbrigati da un consiglio che sedeva in permanenza accanto al patriarca, con il quale condivideva il governo dello stato. Tale consiglio fa la sua apparizione solo durante il secolo XIII: è eletto dall'assemblea plenaria ed il patriarca ha diritto di ricusarlo. II Parlamento si riuniva di preferenza a Cividale, capitale civile dello stato, ma anche a Campoformido, dove si svolgevano le mostre della milizia, oppure a Udine e a San Daniele, che erano i due centri dell'amministrazione del demanio aquileiese. Dal '400 in poi si riunì sempre in Udine. Il comune friulano, se paragonato agli altri comuni italiani, ci appare come un'istituzione con poteri più limitati, anche perché nasce e si sviluppa in presenza di un forte Parlamento. Secondo Pier Silverio Leicht, massima autorità in materia di ordinamenti ed istituzioni friulani, al nostro antico comune, "oltre alle parti più importanti della giurisdizione sfugge il potere di pace e di guerra e l'esercito generale, che dipendono dal Governo, dove esso però manda suoi rappresentanti. La città si distingue dal comune rustico soltanto per l'organizzazione militare diretta alla difesa delle mura, per le pene elevate che difendono l'ordine pubblico della sua cerchia, per i privilegi di quel reparto speciale che è il mercato". Secondo Gian Carlo Menis "il comune friulano non nasce in opposizione al principe, ma dall'attivismo della borghesia e dalla sua solidarietà con il patriarca nel garantire l'ordine pubblico, per cui questa classe ottiene garanzie, privilegi ed autonomia nei confronti della nobiltà. I magistrati del comune infatti derivano direttamente dall'ordinamento delle milizie patriarcali ed i diritti comunali si incentrano sui privilegi di mercato". I comuni più antichi sono quelli cittadini (Sacile, Cividale, ecc.) che nascono nel XII secolo. Ma accanto ad essi si consolidano anche le comunità rustiche, dette vicinie, dove i contadini erano riusciti a difendersi dai feudatari stabilendo un regime di diritto e doveri consuetudinari, ed acquisendo quindi un potere di gruppo. Il comune rustico trasforma le norme consuetudinarie in norme scritte negli statuti rurali, che prendono naturalmente a modello gli statuti cittadini. Gli organi del comune sono: l'arengo, ovvero l'assemblea di tutti capifamiglia liberi, che si riuniva poche volte in un anno per deliberare sulle questioni più gravi; il consiglio maggiore, formato da rappresentanti eletti ogni anno; il consiglio minore, composto da quindici uomini, che si riuniva ogni settimana per gli affari correnti. Dal punto di vista della struttura il comune friulano non si differenzia dai comuni dell'Italia settentrionale. P. S. LEICHT, Il Parlamento della Patria del Friuli, sua origine, costituzione e legislazione, Udine 1903.

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