Fatti di Storia
I Longobardi in Friuli
Già verso la metà del V secolo, dapprima con Odoacre, poi con Teodorico, i Germani tendono a costituire anche in Italia, come già avevano fatto in Gallia, in Spagna e nella stessa Africa, una stabile monarchia. Cambia, di conseguenza. il carattere delle loro invasioni, che si trasformano da scorrerie con scopi predatori, in imponenti ed ordinate migrazioni di interi popoli. È per questo che il rovinoso turbine delle invasioni, che ebbe conseguenze particolarmente tragiche per il nostro Friuli, passaggio obbligato di tutti gli invasori, finì per comporsi in un vero e proprio trapianto di civiltà per merito dei Longobardi, cioè di un episodio "fondamentalmente positivo" che, sommato agli apporti culturali celtici, romani e cristiani, "contribuì in forma notevole alla maturazione della tipica civiltà friulana" (Menis).
Ma vediamo subito come avvenne e perché l'immigrazione e l'insediamento del nuovo gruppo etnico in Friuli.
Il generale bizantino Narsete, autoritario per carattere, per scuola e per contingenze, impegnato nella repressione degli ultimi focolai di resistenza gotica in Friuli, divenne ancor più autoritario dopo la morte di Giustiniano, avvenuta nel 565. Gli stessi latini, insofferenti della sua politica di oppressione, gli si rivoltarono contro con la forza della disperazione ed il vecchio generale, con una mossa che non era la prima e che non sarà l'ultima nella politica italiana, chiese aiuto all'estero, Narsete, in verità, aveva bisogno di truppe per presidiare la Valle Padana e proteggerla dai Franchi e dai Burgundi. Avviò quindi trattative con Longobardi, che si dimostrarono disposti a venire in suo aiuto in cambio di lauti compensi, ma il governo di Costantinopoli lo silurò. Le trattative, di conseguenza, si interruppero, ma i Longobardi, che erano già pronti con armi e bagagli sulla punta del Lago Balaton, non rinunciarono al loro viaggio in Italia.
Ed ecco come Paolo Diacono, il grande storico cividalese di origine longobarda, narra l'avvenimento nel libro secondo della sua Historia Longobardorum, che rileggiamo nella traduzione di Amedeo Giacomini: "Alboino divise allora le sue terre (e cioè la Pannonia) tra gli Unni suoi amici, con questo patto, però, che, se i Longobardi fossero stati costretti a tornare indietro, potessero ancora recuperarle. Ciò fatto, i Longobardi, abbandonata la Pannonia, s'affrettarono con le mogli, con i figli e con tutti i loro averi, verso l'Italia, arsi dalla cupidigia di impadronirsene. Avevano abitato la Pannonia per quarantadue anni: ne uscirono in aprile, che correva il tempo della prima indizione, il secondo giorno dopo la santa Pasqua, essendo già trascorsi cinquecentosessantotto anni dall'Incarnazione di Nostro Signore".
Alboino salì quindi su un monte ed indicò al suo popolo la terra promessa, ripetendo un gesto che gli storici attribuiscono ad Annibale, che da una cima delle Alpi occidentali indica l'Italia al suo esercito. Superò quindi l'Isonzo attraverso il ponte romano nei pressi di Savogna, ed occupò pacificamente la pianura friulana, nella quale con ogni probabilità tutti i Longobardi si fermarono per un anno. Poi, prima di partire per nuove conquiste, giustamente preoccupato di assicurarsi una protezione alle spalle, Alboino "stabilì di porre a capo di Cividale e di tutta la regione, Gisulfo, a quel che si dice, suo nipote, uomo abile in ogni atto, che era suo scudiero, o, come si dice nella loro lingua: "marpahis". Gisulfo disse che non avrebbe accettato il governo di quella città e di quel popolo, se prima non gli fossero state concesse quelle "fare" (quelle stirpi cioè e quei nuclei familiari) che egli avesse scelto a suo piacimento. Onde avvenne che con il consenso del re, rimasero, come aveva desiderato, ad abitare seco lui le principali prosapie dei Longobardi. Ottenne così, Gisulfo, il titolo e la dignità di duca".
I Longobardi, oltre che "barbari", erano anche ariani. Non meraviglia quindi la fuga a Grado del Patriarca d'Aquileia Paolo, che porta con sé il tesoro della sua chiesa anche se la sua prudenza ci appare eccessiva rispetto al carattere pacifico dell'invasione osservabile in sede storica. (Non si trattò in realtà di una fuga, bensì di un ripiegamento prudenziale, imposto dall'imperatore anche al metropolità di Milano che, in quello stesso tempo, si spostò a Genova). Alboino, comunque, evitò di venire alle mani con i Bizantini, arroccati lungo le coste adriatiche e, una volta sistemato il governo del Friuli, proseguì per Milano, dove giunse il 3 settembre 569 e Pavia, che conquisterà dopo tre anni di lotta. Sarà questa la capitale del regno longobardo, che amministrerà gran parte della penisola, lasciando ai Bizantini solo l'Esarcato, la Pentapoli (nell'Emilia-Romagna e nelle Marche), il Lazio, la Calabria e le Isole.
Qual era il grado di civiltà dei nuovi venuti?
Esaminando il materiale ritrovato nel sepolcreto di San Giovanni a Cividale, risalente alla seconda metà del VI secolo, si conclude che i Longobardi erano abili nell'attività artigianale e, particolarmente nella lavorazione della ceramica domestica, nella produzione delle armi, nell'oreficeria. Sapevano filare e tessere la lana, erano buoni allevatori di animali, specie di cavalli, ed erano cacciatori. Sembra che avessero scarse nozioni di agricoltura diretta, ma praticavano il commercio. Furono, comunque, politicamente molto abili e riuscirono a dare un'impronta indelebile al quadro economico e sociale dell'Italia e del Friuli.
Venendo ora ad esaminare le conseguenze determinate dalla presenza dei Longobardi in Friuli, possiamo con certezza affermare che essi diedero coesione ed unità a tutta la regione compresa fra Timavo e Livenza, perché occuparono tutti e quattro i municipi romani di Aquileia, Cividale, Zuglio e Concordia, che furono sottoposti al governo di un solo duca; concepirono il ducato come un bastione difensivo rivolto verso nord-est, e quindi lo munirono abilmente e fittamente di fortificazioni capaci di resistere autonomamente ad ogni assalto; dato il carattere difensivo del ducato, le stesse correnti commerciali fra l'Italia e l'Europa centrale subirono una deviazione ed andarono a stabilirsi verso i valichi del Veneto e della Lombardia; l'apporto etnico-culturale dei Longobardi fu qui più forte che altrove perché qui rimasero molte delle migliori famiglie, che diedero al ducato un senso di orgogliosa nobiltà e furono le ultime ad arrendersi ai Franchi di Carlo Magno.
Sono tutti elementi che concorsero a formare in Friuli i migliori uomini della classe politica longobarda, cosicché il ducato ci appare quasi una palestra di concorrenti al trono d'Italia: Ratchis e Astolfo riuscirono a raggiungere il trono; il duca Lupo e Arnefrit di Ragogna perirono nel tentativo di raggiungerlo.
Si spiega anche, alla luce delle precedenti constatazioni. il gran conto in cui veniva tenuto l'esercito friulano dagli altri Longobardi e, di conseguenza, l'esistenza in Friuli di un senso di orgoglio militare regionale o ducale.
Ma oltre che fortissimi guerrieri ed abili politici, i duchi del Friuli furono anche ottimi riformatori ed innovatori nel campo dell'economia. Basti dire qui che introdussero quel sistema curtense che riuscì a far rifiorire la nostra agricoltura dopo secoli di abbandono e di distruzioni.
II quadro non sarebbe ancora completo se tacessimo dell'importanza che ebbero le consuetudini sociali e giuridiche longobarde per la vita sociale del Medio Evo friulano e se dimenticassimo la loro tolleranza religiosa, in tempi di dura intolleranza, che li portò dapprima ad intrecciare cordiali rapporti con la chiesa aquileiese, naturale protettrice dei cattolici, ovvero della popolazione sottomessa, poi a fiancheggiarla durante il lungo periodo dello scisma dei tre capitoli, e infine ad abbracciarne la fede.
I Longobardi si convertirono al cattolicesimo dopo il 650 e, successivamente, diedero al clero aquileiese alcuni eminenti personaggi, quali i patriarchi Sigualdo e Callisto, nonché il celebre Paolo Diacono. "Si comprende facilmente, osserva il Leicht, come questi stretti rapporti col clero dovessero portare ad una profonda modificazione dei costumi, dato che la chiesa era in questo tempo la depositaria delle tradizioni letterarie ed artistiche del mondo romano".
Ancora una volta, nell'appassionante storia del Friuli, possiamo osservare un processo di assimilazione e di sintesi culturale.
I Longobardi rimasero in Friuli per 208 anni, dal 568 al 776.
I primi cento furono anni difficili, caratterizzati dall'instabilità politica, provocata da cause interne ed esterne e soprattutto dalle guerre contro gli Avari e gli Slavi. Gli ultimi cento furono gli anni della espansione economica e culturale del ducato.
Dopo la morte di Clefi (575), successore di Alboino, il regno appare dominato da forze disgregatrici, che si materializzano in violenze dei duchi contro i Romani e le chiese; ma sembra che il ducato friulano sia rimasto tranquillo, in attesa del prevalere delle forze unitarie e del ritorno al regime monarchico. Ma tempi bui incombono sul ducato quando gli Avari, antichi alleati dei Longobardi, tentano a loro volta l'avventura italiana nel 610.
Fra il 610 e il 620, i Bizantini attirano ed uccidono in Oderzo i figli di Gisulfo II, Tato e Caco, che governavano assieme il Friuli, e re Rotari per punizione distrugge Oderzo, che sarà successivamente annessa con il suo territorio al ducato friulano.
Nel 664 il duca friulano Lupo si ribella al re, e questi lo punisce permettendo agli Avari di invadere nuovamente il Friuli e di abbandonarsi alle rituali distruzioni. Ma quando si accorge che gli Avari non hanno intenzione di tornarsene ai paesi loro, deve intervenire personalmente per ricacciarli.
Durante il 666 si registra il tentativo del figlio di Lupo, Arnefrit, di conquistare il ducato con l'aiuto degli Slavi, ma è fermato e battuto presso Nimis dal successore del padre, Witari.
I dissidi con gli Slavi, che minacciavano i pascoli di confine, continuarono negli anni a cavallo fra i due secoli VII e VIII. Il duca Ferdulfo, che alla testa di molti nobili partì contro di essi per una spedizione punitiva, cadde in un agguato e fu ucciso. Alla fine i due popoli finirono per accordarsi e i Longobardi permisero una pacifica immigrazione di pastori slavi nella zona prealpina compresa fra Tarcento e Cormòns.
Il periodo felice, di vera grandezza, incomincia a partire dal 706, con il governo di Pemmone. Il nuovo duca trova una situazione certamente favorevole, perché ormai il suo popolo si è convertito al cattolicesimo, la scisma dei tre capitoli è terminato. Gli Slavi sembrano finalmente soddisfatti; ma é la sua personalità di uomo assetato di cultura e di giustizia che darà al ducato un ruolo anche culturale che la regione non aveva mai avuto, neanche ai tempi di Aquileia romana. Egli fonda una scuola di cultura latina che diventa ben presto fiorente e che può vantare fra i suoi discepoli due uomini della statura di Paolo Diacono e del poeta e grammatico Paolino, che divenne in seguito Patriarca di Aquileia. Gli stessi figli del duca, Ratchis e Astolfo, furono educati alla scuola creata dal padre.
Nel 720, riprende le armi contro gli Slavi, che sconfigge duramente nei pressi di Lauriana, oltre il confine del ducato, dimostrandosi uomo veramente grande tanto in pace quanto in guerra. Finì tuttavia per irritare re Liutprando per la sua politica ecclesiastica che, pur essendo impostata su un piano di elargizioni, finì per essere o per apparire troppo autoritaria (o paternalistica). Egli fu forse vittima anche di una strana baruffa fra il Patriarca di Aquileia ed il suo suffraganeo e alla fine fu deposto. Al suo posto salì il figlio Ratchis, che governò il Friuli per cinque anni, dal 739 al 744 e, come il padre, favori gli artisti e i letterati, sconfisse di nuovo gli Slavi nel corso di una fortunata campagna militare, scelse Paolo Diacono come consigliere.
Quando Ratchis sali al trono d'Italia, suo fratello Astolfo ebbe il governo del ducato e diventerà egli stesso re d'Italia quando Ratchis si ritirerà nel convento di Montecassino.
Con i figli di Pemmone il ducato visse gli anni del maggior splendore raggiungendo la massima espansione economica, ed il più alto livello culturale. Ma l'acceso nazionalismo di Astolfo re d'Italia, più ardimentoso che saggio, deciso a cacciare definitivamente i Bizantini dall'Italia, riuscì a creare quella convergenza di interessi fra la Chiesa e i Franchi che sarà fatale per Longobardi.
La politica di Astolfo fallì proprio nei rapporti con la Chiesa, cioè; nel campo in cui i suoi predecessori avevano dato la misura della loro abilità, politica. Erano infatti riusciti ad avere contemporaneamente buoni rapporti con la Chiesa cattolica romana e con la Chiesa scismatica aquileiese. Essi furono anche i mediatori fra le due parti dello scisma, concluso a Pavia nel 699 durante un sinodo convocato da re Cuniberto.
Sarebbe certamente interessante esaminare nei dettagli la politica dei Longobardi nei confronti della Chiesa, ma qui sarà solo possibile narrare un episodio che spiega la doppia serie dei patriarchi di Aquileia a partire dal 607.
Come è noto il Patriarca di Aquileia era fuggito a Grado all'arrivo dei Longobardi e non si era più mosso dall'isola forse perché, nonostante i buoni rapporti con i nuovi venuti, si sentiva più sicuro da eventuali scaramucce fra questi e i Bizantini. Egli, comunque, rimaneva il titolare della metropoli di Aquileia. Ma quando nel 607 i Bizantini riuscirono a far eleggere un vescovo favorevole alla fine dello scisma, gran parte del clero aquileise riparò sulla terra ferma, implorando l'appoggio del re longobardo Agilulfo ed eleggendo Giovanni alla carica di vescovo di Aquileia. Inizia cosi la doppia serie dei patriarchi "di Aquileia": quello residente a Grado ebbe giurisdizione sulla fascia costiera e sull'Istria soggetta ai Bizantini; quello residente a Cormòns, fu metropolita di tutto il rimanente Friuli e delle regioni vicine. Ora, se la serie doppia continua anche dopo la composizione dello scisma, ciò significa che i Longobardi, con raro spirito di comprensione e di tolleranza, ma anche con un alto senso della politica, che è sempre pratica, riconobbero la situazione creatasi novanta anni prima.
La politica unitaria di Astolfo tesa a collegare al regno i ducati autonomi di Spoleto e Benevento, ebbe comunque l'effetto di spingere il papa Stefano II, indifeso ormai, dopo l'abbandono dell'imperatore di Bizanzio, di fronte alle incursioni longobarde, ad invocare l'aiuto dei Franchi.
L'invocazione papale non rimase inascoltata e portò ad una alleanza antilongobarda nel 754. Il re franco Pipino scese due volte in Italia, spinse Astolfo entro le mura di Pavia e gli impose umilianti condizioni di pace.
Il successore di Astolfo, incapace evidentemente di capire la dura lezione, continuò ad irritare il papa e a provocare i Franchi, che scesero nuovamente in Italia nel 773 agli ordini di Carlo Magno.
Approfittando però della guerra che impegnava i Franchi contro i Sassoni, il duca riprese le armi ed organizzò una vasta alleanza contro Carlo Magno, alla quale parteciparono anche i Bizantini. Il piano del duca Rotgaudo fu comunicato al re franco che accorse in Italia e diede battaglia lungo il Piave, dove riuscì a prevalere sull'esercito friulano. Cadde nella battaglia lo stesso duca Rotgaudo e tutta la migliore nobiltà longobarda. Carlo si spinse fino a Cividale per dirigere una dura repressione.
Finiva cosi, per mano dei Franchi, il potere politico dei Longobardi in Italia.