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Monumenti

Colonne di Piazza San Marco, Venezia

Alte svettano nel cielo, queste due snelle e sinuose colonne: rappresentano il Leone alato a simboleggiare la Serenissima e San Todaro a protezione della città. Per chi giungeva dal mare, fungevano da portone d'accesso all'area marciana, come due silenziose guardie del corpo a difesa del più prezioso dei gioielli: Piazza San Marco. Le colonne di Piazza San Marco sono due alti e slanciati pilastri in marmo e granito rosa e grigio, posizionati all'entrata dell'area marciana verso il molo e il bacino di San Marco; alla base delle colonne sono scolpiti i Mestieri e su dei capitelli in tipico stile veneto - bizantino sono presenti le statue del Leone alato, simbolo della Repubblica e di San Teodoro (Todaro in veneziano), primo santo protettore della città (quest'ultima è in realtà una copia, l'originale si trova all'entrata di Palazzo Ducale). Discussa è l'origine: Francesco Sansovino ritiene che siano state portate da Costantinopoli nel XII secolo, seconda metà e che in realtà fossero tre, ma una, nelle operazioni di sbarco sia andata perduta, mentre altri ritengono che siano arrivate nel 1125 da Domenico Michiel in una delle sue spedizioni in Terrasanta. Una cosa è certa: rimasero distese a terra per molti anni e vennero erette solo nel 1172 da Nicolò Barattieri che riuscì a trovare un modo per posizionarle in piedi; la gioia dei veneziani fu tanta che, per ringraziarlo, gli venne concessa l'esclusiva del gioco d'azzardo da effettuarsi proprio ai piedi delle due colonne, cosa che gli permise di arricchirsi non poco. E' noto che, in passato, nella zona tra le due colonne, avvenissero esecuzioni capitali, tanto che ancora oggi i veneziani, per superstizione, evitano di passarci in mezzo; da qui, infatti, deriva il detto dialettale: "Te fasso vedar mi, che ora che xe" (tradotto: ti faccio vedere io, che ora è) che riprende l'immagine dei condannati a morte, di spalle al bacino di San Marco, che come ultima visione avevano la Torre dell'Orologio.

Arco dei Gavi, Verona

Costruito dai romani agli inizi del primo secolo dopo Cristo, l'arco dei Gavi è un raro esempio di arco onorario dedicato a privati cittadini: un arco quadrifronte a pianta rettangolare allungata, realizzato impiegando blocchi di pietra bianca disposti in filari. Ha una struttura con due fronti principali e due secondari. Sui fronti principali vi sono quattro colonne corinzie, le due mediane inquadrano l'apertura mentre quelle angolari delimitano i fianchi del monumento. Negli spazi tra le colonne mediane e quelle angolari sono presenti delle nicchie che un tempo ospitavano le statue dei personaggi onorati: Massimo, Stabone, Lucio, Macro e Vibio. Sebbene la sua forma ricordi quella degli archi di trionfo, esso è un arco celebrativo che fu costruito per onorare alcuni componenti della famiglia Gavia, che in virtù di particolari meriti ottenne il permesso di farlo edificare a proprie spese sul suolo pubblico. Per la sua ubicazione fu scelta una posizione molto prestigiosa, nella quale si concludeva la via Postumia al suo ingresso in città (era questa una importante strada che in epoca romana congiungeva Genova con il Mare Adriatico, di cui ancor oggi un tratto è visibile alla base dell’arco stesso). Perduta nei secoli la sua funzione celebrativa, in epoca comunale divenne una delle porte di accesso a Verona, inserita entro le mura comunali con il nome di Nuova Porta di San Zeno. Inizialmente l'Arco dei Gavi aveva una posizione diversa da quella attuale. Esso infatti era posto di fronte alla torre dell’orologio di Castelvecchio, lungo l’attuale corso Cavour sul cui selciato sono ancora oggi ben visibili le originarie posizioni dei pilastri. Venne smontato in un giorno, il 29 agosto 1805, dalle truppe di occupazione napoleoniche che ritenevano potesse ostacolasse il transito dei carri militari. Custodito amorevolmente dai veronesi per oltre un secolo fu ricomposto nel 1932 nella attuale ubicazione, una piazzetta circondata da alberi posta sulla destra del medioevale maniero di Castelvecchio. La suggestiva, ma erronea identificazione del suo realizzatore con il celebre architetto romano Vitruvio Pollione, teorico dell'architettura dell'età augustea, ne accrebbe la fama e durante il rinascimento fu studiato da numerosi artisti, tra cui Giovanni Bellini, Andrea Mantegna, Andrea Palladio, Michele Sanmicheli e Giovanni Falconetto. Il vero realizzatore, il cui nome è presente sul pilastro sinistro del prospetto rivolto verso il fiume Adige è in realtà Lucio Vitruvio Cerdone, un allievo del famoso architetto imperiale.

Pala d'oro, Venezia

La Pala d’Oro è stata per novecento anni un tesoro ammirato, ma di fatto sconosciuto. Fino al 1958; in quell’anno il Patriarca di Venezia Giuseppe Roncalli fu eletto Papa col nome di Giovanni XXIII. Fu allora che il primo procuratore di San Marco, Vittorio Cini, pensò di offrire a Papa Giovanni il grande tesoro sotto forma di un libro che per la prima volta lo mostrasse in tutti i suoi particolari. L’Istituto di Storia dell’Arte della Fondazione Cini di Venezia, con la collaborazione di eminenti studiosi guidati dal prof. Hans R. Hahnloser, curò la redazione dell’imponente volume, che richiese ben sette anni per essere terminato. Si giunge alla pubblicazione, infatti, solo nel 1965, troppo tardi perché Papa Giovanni, il quale aveva auspicato ed incoraggiato il lavoro, potesse vederlo. Nel Novecentesimo anno della Basilica e della Pala, la Canal & Stamperia Editrice di Venezia pubblica la nuova edizione aggiornata, che permette una vera e propria riscoperta di questo che è il più affascinante capolavoro dell’oreficeria bizantina e gotica. Attorno al nucleo degli scritti originali dei professori Bischoff, Fiocco, Hahnloser, Pertusi, Volbach, si è raccolta una nuova serie di saggi dei professori Polacco (Università di Venezia), Taburet Delahaye (Museo del Louvre), Goffen (Rutgers University, New Jersey), Niero (Basilica di San Marco). Il volume è corredato di un apparato iconografico completamente nuovo che rende facile non solo una lettura artistica altrimenti impossibile della Pala, ma anche la decodificazione visiva dei concetti filosofici e teologici degli autori. Smontata, analizzata e passata pezzo a pezzo al vaglio degli studiosi, la Pala è stata fotografata in ogni dettaglio. La maggior parte degli smalti bizantini è riprodotta a colori a grandezza naturale. Il lettore potrà in tal modo godersi lo straordinario tesoro da vicino, in misura ben maggiore di quanto sia permesso fare con una visita diretta. Le oreficerie, le montature gotiche a pinnacoli, a grappoli, a foglie delle pietre preziose, risplendono mettendo in luce l’immenso, unico gioiello medioevale senza tempo. Nuove tavole a colori riproducono, per la prima volta, in modo completo, la Pala Feriale di Paolo Veneziano, gli ottocenteschi acquerelli inediti rappresentanti il Ciborio e le Pale delle altre Chiese della laguna. Il lettore che per la prima volta, spinto dal desiderio di conoscere o da curiosità, apre questo libro e sfoglia le sue pagine, soffermando lo sguardo sulle preziose tavole a colori, inizia un percorso che lo porterà alla scoperta di un meraviglioso tesoro finora poco conosciuto: la Pala d’Oro della Basilica di San Marco a Venezia. Ogni anno, più di cinquecentomila visitatori provenienti da tutte le parti del mondo, sostano davanti a questo “sprazzo di Paradiso”, come lo definì papa Giovanni XXIII. Oggi, per la prima volta, ognuno di loro può finalmente leggerlo, capirlo, conservarlo a casa con quest’opera. La grande Pala d’Oro, che dal 1105 è posta sull’Altare Maggiore della Basilica di San Marco, è il tesoro più prezioso della Chiesa e della città di Venezia. Nella sua forma attuale fu ordinata da Andrea Dandolo, il doge amico del Petrarca, che negli anni fra il 1343 ed il 1345 fece della Pala un capolavoro unico dell’arte bizantina e gotica, affinché rimanesse nei secoli il venerato emblema della civiltà e della fede cristiana della Serenissima Repubblica di Venezia. Egli stesso dettò le due Iscrizioni che raccontano la storia della Pala, scandita da tre date: 1105, anno nel quale venne ordinata dal doge Ordelaffo Falier una prima Pala di smalti, per onorare la Basilica da poco ultimata; il 1209, quando, durante il dogado di Pietro Ziani, vennero aggiunti fra gli altri gli splendidi smalti raffiguranti sei feste della Chiesa; il 1345, anno della sua definitiva, monumentale risistemazione. La Pala è costituita da un telaio in argento dorato (m 3,34 x 2,51) ricoperto da spigolo a spigolo da 255 smalti cloisonné bizantini, tra i più grandi e belli del mondo e provenienti, insieme a numerose icone, da Costantinopoli, e da quasi 2000 smeraldi, rubini, ametiste, perle ed altre pietre preziose. L’insieme degli smalti rappresenta narrativamente gli episodi centrali della Storia di Cristo e di San Marco, e illustra, intorno allo ieratico Cristo Pantocrator, l’alta corte della gerarchia celeste col coro di profeti, apostoli ed angeli. L’immensa pala smaltata e gemmata, destinata a polarizzare l’attenzione dei fedeli durante le maggiori festività annuali, mette in scena, come in un mistero medioevale, una pagina dell’Apocalisse, là dove si narra della Gerusalemme Celeste fatta “di diaspro, rubino, smeraldo…”. Questo volume illustra la secolare operazione di sintesi tra Bizantino e Gotico ottenuta con l’arte orafa di cui è protagonista la Pala, il più grande gioiello esistente al mondo, offrendo le risposte alle domande poste dal capolavoro finora insolute.

Tempio Canoviano

Il Tempio del Canova è costruito su un’altura soleggiata a poche centinaia di metri dalla Gipsoteca . Di imponente costruzione neoclassica, poggia su tre ampie gradinate di diversa pendenza e su di un vasto acciottolato di ‘cogoli’ bianchi e nerastri, raccolti sul Piave e disposti in artistiche forme geometriche. Il Tempio di Possagno fu progettato da Antonio Canova (1757-1822) e disegnato da Pietro Bosio, con suggerimenti dell’architetto Antonio Selva. Canova pose la prima pietra l’11 luglio 1819. Nel Tempio del Canova si possono distinguere tre elementi architettonici, l’uno inserito nell’altro, come fossero parti armoniche di una ideale successione: il colonnato, che richiama il Partenone di Atene; il corpo centrale, simile al Pantheon di Roma; l’abside dell’altare maggiore, elevata di sei gradini rispetto agli altri due elementi. Le tre parti possono essere considerate i simboli di tre età della storia: la civiltà greca, la cultura romana e infine la grandezza cristiana, compimento ultimo e salvifico della storia di ogni singolo uomo e di tutto l’universo, che trova il suo significato profondo nel mistero della Trinità, raffigurata nella pala dell’altare maggiore. Il diametro esterno è di m. 35,764, quello interno è di 27,816; lo spessore dei muri quindi di m. 7,948, parzialmente utilizzato dai corridoi interni e dalle scale di accesso alla cupola e ai vani superiori. L’atrio è lungo m. 27,816 (dunque uguale al diametro interno e all’altezza della cupola); l’atrio è largo m. 9,272 (giusto un terzo della lunghezza). Il pronao è sorretto da una doppia fila di otto colonne, di ordine dorico come il capitello, sostenenti un architrave di ordine attico. La pietra delle colonne chiamata lumachella (materiale calcareo, ricco di gusci di conchiglie) proviene dalle cave oggi dismesse in comune di Cavaso, visibile anche dall’atrio del Tempio. Tra una linea e l’altra di colonne vi è la distanza di m. 2,964; tra una colonna e l’altra vi è la distanza di m. 1,69, uguale alla misura del diametro di base di ciascuna colonna. Ogni colonna, di slancio rastremato,misura in altezza m. 10,14. Il grande portone d’entrata è sostenuto da due formidabili stipiti monolitici di lumachella alti ciascuno m. 7,032, larghi m. 1,043 e dello spessore di m. 0,51; l’architrave ha una lunghezza di m. 4,40. Le due porte laterali di ridotte dimensioni, sono ricavate entro due grandi nicchie. Il frontone porta scolpite le parole latine DEO OPT MAX UNI AC TRINO: “Tempio dedicato a Dio ottimo e massimo, uno e trino”. Il timpano del frontone è spoglio; quattro gradinoni fanno da base alla cupola, costruita in ‘masiero e mattoni possagnesi’, e ricoperta a squame di pietre di Cesio nel feltrino e terminante con la vera dell’occhio. L’occhio della cupola (che è anche chiave della volta) ha il diametro di m. 5,33. Il diametro dell’interno del tempio è di m. 27,816, uguale all’altezza e, come si è visto, alla lunghezza del colonnato. La volta della cupola semisferica poggia su una graziosa cornice con fregi dorati ed è decorata da 224 lacunari, in sette file orizzontali concentriche; ogni cassettone, al centro, ha un rosone di legno dorato, opera di intaglio di quattordici diverse forme. Dal centro della cupola poi discende la luce, che si espande dall’alto con temperamento assai vago. Vi fa specchio il bel pavimento interno commesso prima a compartimenti di pietre bianche e rosse, e poi, esattamente sotto l’occhio della luce stessa, con ordine circolare di marmi in più colori.

Sacrario di Cima Grappa

Il Sacrario Sorge alla sommità del massiccio del Grappa a quota 1.776. L'intera costruzione si adagia, lineare ed imponente, sul costone di vetta di cui corregge l'aspro profilo naturale. Fu costruito nel 1935, su progetto dell'architetto Giovanni Greppi e dello scultore Giannino Castiglioni. L'architettura, che s'ispira all'arte fortificatoria militare, esalta il misticismo del luogo con le sue masse geometriche ascendenti al cielo. Il corpo centrale del monumento, quello dove sono custoditi i Resti mortali di 12.615 Caduti di cui 10.332 Ignoti, è costituito da cinque gironi concentrici, degradanti a tronco di cono; ciascun girone è alto quattro metri e circoscritto da un ripiano circolare largo dieci. Le Spoglie dei 2.283 Caduti identificati sono disposte in ordine alfabetico e custodite in loculi coperti da lastre di bronzo dove sono incisi il nome e le decorazioni al valor militare del Caduto. Quelle del 10.332 Ignoti sono raccolte in urne comuni più grandi che si alternano alle tombe singole. I cinque gironi sono collegati da un'ampia gradinata centrale a cinque rampe che dalla base del monumento porta alla sommità dove sorge il sacello, Santuario della Madonnina del Grappa. Dal piazzale del tempietto si snoda, come un bianco tappeto in pietra squadrata del Grappa, la Via Eroica che corre per 250 metri circa fino al Portale Roma tra due file di cippi in pietra nei quali sono scolpiti, i nomi delle località legate ai più famosi fatti d'arme delle battaglie del Grappa. Tra il 4° e il 5° girone, in posizione centrale, alla sommità della monumentale scalea che adduce al vertice del monumento, è la tomba del Maresciallo d'Italia Gaetano Giardino, che prima di morire (nel 1935) aveva espresso il desiderio di essere sepolto lassù tra i suoi soldati, della 4 Armata, passata alla storia col nome di "ARMATA DEL GRAPPA". La Madonnina del Grappa Sull'ultimo ripiano, a cui si accede dal quarto girone a mezzo delle gradinate che fiancheggiano la tomba del Maresciallo Giardino, sorge un sacello circolare sormontato da una cupola metallica e da una grande croce di acciaio. Nella cappella, elevata a Santuario, è custodita la statua delle Madonnina del Grappa a cui è legata una storia di guerra che narra come essa venne mutilata da una granata nemica nel gennaio 1918. La Sacra Effigie venne benedetta nel 1901 dal Cardinale Sarto, poi Papa Pio X. Particolarmente cara agli alpini e ai valligiani della zona, è ora meta di devoto pellegrinaggio al prima domenica d'agosto. Il Portale Roma e l'Osservatorio Al termine della Via Eroica sorge un massiccio e solenne edificio costruito con grossi blocchi di pietra che nella parte superiore riproduce la forma di un colossale sarcofago. E' stato progettato e costruito dall'architetto Alessandro Limongelli ed offerto dalla città di Roma come ingresso principale della preesistente sistemazione del Sacrario. nell'attuale collocazione l'edificio resta come monumento storico. L'Osservatorio è stato ricavato sopra il Portale Roma e vi si accede dal vasto ripiano alle sue spalle, mediante scale interne. Dal terrazzo si ha modo di osservare l'ampio panorama circostante in cui si possono individuare i punti di maggiore interesse storico mediante l'ausilio di un planimetria in bronzo che ne riporta le esatte indicazioni. Settore Austro-Ungarico In un settore, a nord - est del portale Roma, sono state riunite le Spoglie di 10.295 caduti austo - ungarici rinvenute nelle zone circostanti. La sistemazione a loculi di 295 Caduti noti, su due ripiani sovrapposti, è analoga a quella degli italiani. I 10.000 Caduti rimasti ignoti sono raccolti in due urne ai lati della cappella centrale

Faro della Vittoria, Trieste

Il Faro della Vittoria di Trieste, inaugurato nel 1927, su progetto dell'architetto A. Berlam, fu costruito sui resti di un bastione dell'antico forte austriaco, risalente alla metà dell'Ottocento. Il Faro della Vittoria, oltre alla sua funzione di guida alla navigazione notturna nel Golfo di Trieste, è un monumento commemorativo dedicato ai marinai caduti durante la Prima Guerra Mondiale. Alto 70 metri, rivestito all'esterno in blocchi di pietra del Carso e dell'Istria, il Faro di Trieste è sovrastato da una cupola che ospita l'elemento illuminante dell'intensità media di 1.250.000 candele, con una portata di 34-35 miglia. La parte ornamentale è completata, in basso, dalla potente figura del Marinaio Ignoto, opera di Giovanni Mayer, realizzata dal maestro scalpellino Regolo Salandini con l’impiego di 100 tonnellate di pietra di Orsera. Sotto la statua è affissa l’ancora del cacciatorpediniere Audace (prima nave italiana a entrare nel porto di Trieste il 3 novembre 1918), donata dall’ammiraglio Paolo Thaon di Revel, Ministro della Marina del Regno d’Italia. Ai lati dell’ingresso del Faro sono posti due proiettili della corazzata austriaca Viribus Unitis. Su una grande piastra in pietra è incisa l’iscrizione “ A.D. MCMXXVII Splendi e ricorda i Caduti sul mare MCMXV – MCMXVIII”. Dopo sette anni di chiusura totale e alcuni restauri, il Faro è stato riaperto al pubblico il 18 maggio 1986, grazie all’interessamento della Provincia di Trieste e col concorso dell’allora Azienda Autonoma di Turismo e Soggiorno. Attualmente è possibile accedere anche al secondo anello della struttura. La storia L’idea di costruirlo nacque all’architetto triestino Arduino Berlam (1880 – 1946) già nel 1917, poco dopo la disfatta di Caporetto e la battaglia del Piave, e prese corpo nel dicembre 1918, appena finita la guerra. Come sito, venne quasi subito scelto il Poggio di Gretta, che offriva un assetto ottimale: 60 metri sul livello del mare che assicurano una posizione dominante, terreno roccioso e un ampio basamento dalle solide fondamenta che ingloba il bastione rotondo dell’ex Forte austriaco Kressich, completato nel 1854. Il progetto per il Faro fu di Arduino Berlam e i lavori iniziarono nel gennaio 1923 per concludersi (a un costo complessivo di lire 5.265.000) il 24 maggio 1927, con una cerimonia di inaugurazione alla presenza del Re Vittorio Emanuele III. La possente ma slanciata struttura, dal peso complessivo di 8.000 tonnellate, è rivestita esternamente da più di 1.500 metri cubi di pietra istriana di Orsera nella parte superiore e di pietra carsica di Gabria in quella inferiore. Completano l’edificio 2.000 metri cubi di calcestruzzo e undici vagoni di ferro pari a 100 tonnellate. Sopra la grande colonna, un capitello sostiene la “coffa” (così definita con esplicito riferimento agli alberi delle navi), in cui è inserita la gabbia di bronzo e cristalli della lanterna, coperta da una cupola in bronzo decorata a squame. All’apice della cupola svetta la statua in rame della Vittoria Alata, opera dello scultore triestino Giovanni Mayer (1863 – 1943), realizzata dall’artigiano del rame e del ferro Giacomo Sebroth: il peso è di circa 7 quintali.

Sacrario di Redipuglia

Redipuglia il più grande Sacrario Militare Italiano, sorge sul versante occidentale del monte Sei Busi che nella Prima guerra mondiale fu aspramente conteso perché, pur se poco elevato, consentiva dalla sua sommità di dominare per ampio raggio l’accesso da Ovest ai primi gradini del tavolato carsico. Qui sono custoditi i resti mortali di 100.187 Caduti: 39.857 noti e 60.330 ignoti. Recinge simbolicamente l’ingresso al Sacrario, ai piedi della monumentale scalea, una grossa catena d’ancora che appartenne alla torpediniera “Grado". Subito oltre, si distende in leggero declivio un ampio piazzale, lastricato in pietra del Carso, attraversato sulla sua linea mediana dalla “Via Eroica”, che corre tra due file di lastre dì bronzo,19 per lato,di cui ciascuna porta inciso il nome di una località dove più aspra e sanguinosa fu la lotta. In fondo alla Via Eroica si eleva, solenne e severa, la gradinata che custodisce, in ordine alfabetico dal basso verso l’alto, le spoglie di 40000 caduti noti ed i cui nomi figurano incisi in singole lapidi di bronzo. La maestosa scalinata, formata da 22 gradoni su cui sono allineate le tombe dei caduti, sul davanti ed alla base della quale sorge, isolata quella del Duca d’Aosta comandante della Terza Armata, fiancheggiata dalle urne dei suoi Generali caduti in combattimento, è simile al poderoso e perfetto schieramento d’una intera grande Unità di centomila soldati. Il Duca d’Aosta, morto nel 1931, per sua volontà è stato qui portato a riposare in eterno tra i suoi soldati. La tomba è ricavata in un monolito in porfido del peso di 75 tonnellate. Nell’ultimo gradone, in due grandi tombe comuni che fiancheggiano ai lati la Cappella votiva, si trovano custodite le salme di 60000 caduti ignoti e, vicine, quelle, identificate, di 72 marinai e 56 guardie di finanza. Alla sommità del monumento dominano tre grandi croci di bronzo, simbolo del sacrificio divino e, nello stesso tempo, speranza di ascesa a Dio: com’è anche nel significato spirituale che ha ispirato l’architettura del monumento che si eleva, stagliandosi nettamente nel circostante panorama, verso il cielo. Nei locali dietro la Cappella votiva si trovano i musei coi cimeli dei caduti, che riposano nel Sacrario. Il Sacrario venne realizzato nel 1938 su progetto dell’architetto Giovanni Greppi e dello scultore Giannino Castiglioni. Alla sommità del monumento, su di un pianoro verdeggiante, si trova l’Osservatorio dal quale si domina per ampio raggio la zona circostante e si possono individuare, mediante l’ausilio di un apposito plastico in bronzo, le località e le quote a cui è maggiormente riferita la storia dei gloriosi caduti qui tumulati.